sabato 5 luglio 2014

La mossa del pinguino (2014)


La mossa del pinguino
Italia, 2014, colore, 94' (1h 34')
Regia di Claudio Amendola

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

2005. Bruno (Edoardo Leo) e Salvatore (Ricky Memphis) lavorano come addetti alle pulizie in un museo di Roma. Un giorno scoprono dell'esistenza del curling e, approfittando delle imminenti Olimpiadi Invernali a Torino, decidono di mettere su una squadra e provare a qualificarsi. I due amici cercano altre due persone per la squadra: uno potrebbe essere Neno (Antonello Fassari), cinquantenne campione di boccette, e l'altro Ottavio (Ennio Fantastichini), vigile in pensione e campione di bocce. Dopo alcune diffidenze iniziali, Bruno e Salvatore convincono i due a partecipare all'impresa. Ben presto, però, i quattro si scontrano con il proibitivo costo delle attrezzature (anche di seconda mano) e il tutto sembra destinato a morire ancora prima di cominciare.
Intanto Bruno e sua moglie Eva (Francesca Inaudi) stanno per essere sfrattati, ma Eva preleva dei soldi dal conto per gli studi del figlio Yuri (Damiano De Laurentis) e li affida a Bruno affinché ci paghi il mutuo. Bruno, invece, li usa per comprare le attrezzature per la squadra di curling.
Una notte, durante il turno di pulizie al museo, Bruno fa cadere una teca ed è costretto alle dimissioni. Quando torna a casa scopre che Eva è venuta a sapere che fine hanno fatto i soldi per la casa. I due litigano ed Eva caccia Bruno di casa. Bruno decide che l'unico modo per poter riconquistare Eva è quello di smettere di fare l'eterno bambino e diventare una persona seria: molla la squadra di curling (con estrema delusione di Salvatore), vende la macchina e si trova un lavoro serio come guardiano notturno di un parcheggio.
Su un giornale locale appare un trafiletto dedicato alla «Armata Brancaleone del ghiaccio» e questo convince Eva a riprendere Bruno in casa e a permettergli di partecipare alle Olimpiadi. I quattro, qualificatisi d'ufficio essendo l'unica squadra di curling del sud Italia, vanno a Pinerolo per le selezioni. Questa gita dà modo ai quattro di parlare e di chiarirsi: Neno e Ottavio appianano alcune "divergenze" che hanno avuto in passato, mentre Bruno e Salvatore rinsaldano la loro amicizia e discutono delle loro famiglie (Bruno parla di Eva e Yuri mentre Salvatore parla del padre (Sergio Fiorentini) morto da poco cadendo dal balcone di casa sua).
Eva e Yuri raggiungono la squadra a Pinerolo e fanno il tifo per Bruno. I quattro perdono, ovviamente, ma riescono almeno a fare il punto della bandiera.

La mossa del pinguino segna l'esordio alla regia di Claudio Amendola, e devo dire che se la cava degnamente. E, per non smentirsi, Amendola confeziona un film molto "romano", non solo per gli attori e le ambientazioni, ma anche per il tipo di comicità, che è "di pancia". Non fraintendetemi: non significa assolutamente che è una comicità greve o volgare, ma semplicemente che è una comicità fisica, basata più sulla risata veloce rispetto, ad esempio, al gioco di parole o alla raffinata ironia. Però è una comicità scritta bene, non scontata né banale, che funziona e arriva esattamente dove deve arrivare. I momenti comici si susseguono con un buon ritmo e gli inevitabili momenti più seri o drammatici sono ben inseriti nella storia e, ben più importante, non sono mai stereotipati o forzati.
Il cast funziona benissimo. I quattro protagonisti recitano bene e risultano credibili – ammettendo la fantasiosa situazione di partenza, ovviamente, ma questo rientra nella sospensione di incredulità richiesta dalle commedie di questo tipo. Oltretutto la storia è, sì, fantasiosa ma non è mai inverosimile, e questo è un punto a favore degli sceneggiatori (quattro: lo stesso Amendola e il già citato Edoardo Leo assieme a Michele Alberico e Giulio Di Martino). Ai protagonisti si affiancano un giovanissimo Damiano De Laurentis, perfetto nella parte del figlio di Bruno, e Francesca Inaudi, un'attrice che a me piace molto e che non mi dispiacerebbe vedere più spesso sul grande schermo.
Certo, il film è ben lungi dall'essere perfetto - in fin dei conti è la prima regia di Amendola – e il famoso attore cade in certi errori che, onestamente, potevano essere evitati. Tra questi sicuramente l'uso del ralenti e dell'abusatissimo tema di Momenti di gloria nel momento clou della partita di curling), ma anche il fatto che la fantomatica "mossa del pinguino" è, in fondo in fondo, un po' una cazzata. Poi non so se sono io, ma un paio di "product placement" potevano essere pensati meglio (magari sbaglio, ma le colazioni della famiglia di Bruno sembrano spot per i Coco Pops...).
Insomma, La mossa del pinguino è un film tutto sommato godibile, che intrattiene e diverte – ovvero fa esattamente quello per cui è stato creato - e che si stacca di molto dalle brutte "commedie" a cui certo pessimo Cinema italiano ci ha abituato ultimamente.

Pensavo fosse Amore... invece era un Calesse (1991)


Pensavo fosse Amore... invece era un Calesse
Italia, 1991, colore, 113' (1h 53')
Regia di Massimo Troisi

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Cecilia (Francesca Neri) lavora in una libreria ed è fidanzata con Tommaso (Massimo Troisi), gestore di un ristorante. I due si amano e pensano al matrimonio, ma Cecilia è talmente gelosa da credere fermamente che Tommaso abbia delle amanti che, in realtà, non ha.
Cecilia lavora con Amedeo (Angelo Orlando), la cui giovane sorella Chiara (Alessia Salustri) è innamorata persa di Tommaso. Lui la rifiuta, non solo perché già fidanzato con Cecilia, ma anche perché Chiara è davvero troppo giovane per lui. Chiara, disperata, tenta di uccidere Tommaso mettendogli del veleno nel caffè e mandandolo all'ospedale.
Pochi giorni prima delle nozze, Cecilia lascia Tommaso e l'uomo non sa darsi pace. Qualche tempo dopo alcuni pescatori dicono a Tommaso di aver visto Cecilia uscire dal cinema con un altro, un certo Enea (Marco Messeri), un giudice di gara più grande di lei e che le promette mari e monti.
Tommaso decide di affidarsi ad una fattucchiera (Nuccia Fumo) per far reinnamorare di sé Cecilia e per allontanare Enea. Affinché la maga possa operare i suoi trucchi, Tommaso le porta tre ciocche di capelli: una sua, una di Cecilia e una di Enea. Tommaso, però, scopre che Cecilia ed Enea portano al braccio degli amuleti dello Zimbabwe contro i malefici. Approfittando di una gita in barca, Tommaso riesce a buttare a mare i due amuleti. Il giorno dopo Enea scopre Cecilia e Tommaso fare sesso. Chiara incendia la moto di Enea ma questi, per proteggere Amedeo, decide di non denunciarla e, semplicemente, di sparire.
Tommaso e Cecilia organizzano nuovamente il matrimonio. Tommaso torna dalla fattucchiera la quale gli rivela di non aver avuto tempo di lavorare sulle ciocche di capelli e, quindi, di non aver fatto niente. Tommaso, invece, si rende conto di non amare più Cecilia. Così il giorno dopo Tommaso non si presenta al matrimonio ma manda un biglietto a Cecilia chiedendole di raggiungerlo in un bar. Lei lo fa e mentre i due stanno parlando, il bar si svuota e partono i titoli di coda.

Onestamente non capisco come un film tanto imbarazzante sia così apprezzato dalla gente. La regia di Troisi è dozzinale, anche perché le interpretazioni sono di un livello molto basso. Tremende quelle dei pescatori, che davvero non hanno idea di cosa sia la recitazione; molto mediocri quelle degli altri attori, che spesso non sanno cosa dire e saltano da un discorso all'altro come se, anziché un copione, avessero ricevuto solo vaghe indicazioni sugli argomenti da trattare e poi andassero a braccio. I momenti comici, poi, sono artefatti e sopra le righe (ad esempio quando Tommaso beve il caffè avvelenato o quando Enea si sbraccia con le bandierine - pensato come momento comico e invece solo patetico).
C'è del buono in questo film, ad esempio quando tutti trovano Enea bello e affascinante mentre Tommaso lo vede come un omuncolo insignificante e bruttino, ma sono rari sprazzi che si perdono in un mare di mediocrità e di retorica.
Un film estremamente sopravvalutato, che dice ben poco e che, probabilmente, se non portasse la firma di Troisi sarebbe già scivolato nel dimenticatoio.

giovedì 3 luglio 2014

Tutto parla di te (2012)


Tutto parla di te
Italia/Svizzera, 2012, b/n e colore, 86' (1h 26')
Regia di Alina Marazzi

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Pauline (Charlotte Rampling) è un'etologa. Emma (Elena Radonicich) è una ballerina che da poco ha avuto un figlio. Quando Emma è rimasta incinta, ha avuto molta paura: non sapeva fin quando avrebbe potuto continuare a ballare ed era sicura che, una volta smesso con la danza, non avrebbe più ripreso.
Pauline non conosce Emma, ma la segue insistentemente. Emma, dal canto suo, non si fida molto di Pauline. Un giorno le due si scambiano un paio di battute e diventano subito amiche.
L'interesse di Pauline per Emma non diminuisce e la donna va a parlare col regista della compagnia per cui la ragazza ballava. Questi confida a Pauline di non aver problemi a assumere di nuovo Emma, ma è la ragazza che non vuole. Il regista aggiunge inoltre che Emma dovrebbe mettere le preoccupazioni per il figlio nella danza, così da far uscire la sua parte interiore.
Pauline rivela ad Emma la sua storia: quando era piccola ed era a scuola, in casa è scoppiato un incendio. La madre ha chiuso le finestre e ha fatto morire il figlio appena nato, fratello di Pauline. La madre di Pauline è stata ricoverata in ospedale e là si è lasciata morire dimenticando la famiglia e ciò che di brutto aveva fatto.
Emma vede che Matteo, suo figlio, guarda le foglioline di un albero e si rende conto di avere un figlio bellissimo.
Tutta questa storia è inframmezzata da vecchi filmati in bianco e nero (dell'infanzia di Pauline, probabilmente) e da interviste a madri che raccontano la loro esperienza e la loro vita dopo la nascita del loro primo figlio.

Cominciamo col dire che è fin troppo chiaro che il film è stato girato da una donna, per quanto riguarda il tema trattato e il modo di metterlo in scena. E questa, ci tengo a dirlo, non è discriminazione ma è solo una constatazione.
Quella che è un'opinione personale, invece, è che il film è brutto. E lo è per tanti motivi. Il primo sono i personaggi - o, meglio, il personaggio di Charlotte Rampling. Non so quale fosse l'intento della regista, ma una delle prime cose che Pauline dice a inizio film, a chi le chiede se la casa dove è tornata dopo tanti anni fosse la sua casa di infanzia, risponde sdegnata: «No, noi abitavamo sul lago». Posto che ancora mi chiedo di chi fosse quella casa, decisamente l'ingresso in scena della donna non ce la fa amare. E non ce la fanno amare nemmeno tutte le cose che fa dopo: parla da sola in casa (bieco espediente narrativo per creare nello spettatore la curiosità di capire cosa sia successo nell'infanzia della donna), si comporta come una stalker nei confronti di Emma, ficca il naso dappertutto e impiega un'ora e un quarto (!) a raccontare finalmente la sua storia.
E situazioni e dialoghi non contribuiscono a migliorare il film. Per metà film Emma detesta palesemente Pauline, salvo poi rivolgerle proditoriamente la parola (per dirle che non ha più tempo di leggere un libro, signora mia!) e diventarne la migliore amica. Ma potrei citare il dialogo in cui Emma si arrabbia perché secondo Pauline i bambini non sono così fragili: la ragazza si altera di brutto, urla un «Che cazzo vuoi?» all'amica, le chiede se ha mai avuto figli e se ne va. Una scena-cliché di rara bruttezza. O la fine, in cui il figlio di Emma guarda le foglie e lei, dal nulla, ha un'epifania che consente di chiudere il film più veloce della luce.
La parte peggiore, però, sono le interviste alle madri. Al di là che non hanno alcun nesso con la storia, tanto che sono inserite a forza nella trama, sono davvero terribili. Non scherzo: farebbero passare la voglia di maternità a chiunque! Vengono tutte spiattellate sullo schermo senza un filtro di alcun tipo. Anche supponendo che siano reali (quella di Emma non lo è, quindi potenzialmente non lo è nessuna), davvero si fatica a capire dove vogliano andare a parare. Far capire che la maternità non è solo rose e fiori? Davvero c'è qualcuno che lo pensa ancora? Il fatto che far crescere un figlio da soli non è semplice? E chi ha mai detto che lo sia? Ma soprattutto: e i padri? Dove sono? Sembra che le donne - tutte! - siano costrette a fare tutto da sole. Sono separate? Vedove? Cos'altro? E perché non dirlo anziché lasciare che il film suggerisca, in modo neanche troppo velato, il fatto che solo la madre ha il diritto/dovere di allevare figli?
Un film davvero terribile che propone stereotipi nella parte di fiction e non dà una forma alla parte documentaristica (ammesso che sia davvero tale), che si perde tra i generi ammassandoli senza un criterio, che spreca le poche idee buone che può avere per renderlo un ibrido tra il sensazionalistico e il femministico.

mercoledì 2 luglio 2014

Quel che sapeva Maisie (2012)


Quel che sapeva Maisie
What Maisie Knew, USA, 2012, colore, 93' (1h 33')
Regia di Scott McGehee e David Siegel

Visto ieri in DiVX.

Maisie (Onata Aprile) è una bambina di sei anni con due genitori, Susanna (Julianne Moore) e Beale (Steve Coogan), che litigano spesso. Una sera Susanna cambia la serratura di casa e lascia fuori Beale. I due finiscono presto in tribunale per il divorzio e Susanna fa molto leva su Maisie, inculcandole brutte idee sul padre. Il giudice, nonostante tutto, affida Maisie a Beale. Il cambio di casa non piace molto a Maisie ma a consolarla c'è Margo (Joanna Vanderham), la giovane tata della famiglia, molto affezionata non solo alla bambina ma anche al padre, tanto da sposarlo qualche mese dopo.
Il giorno dopo il matrimonio, nessuno va a prendere Maisie a scuola. Viene chiamata in tutta fretta Margo (che avrebbe già dovuto essere in Luna di Miele) ma quando la ragazza sta per portare via Maisie dalla scuola arriva un ragazzo dall'aria strafatta che dice di chiamarsi Lincoln (Alexander Skarsgård) e di essere il nuovo marito di Susanna. Lincoln è un barista giovane e palestrato ed è chiaro fin da subito che Susanna l'ha sposato solo per ripicca in seguito alle nozze di Beale e Margo. Maisie viene lasciata con Lincoln (anche se lei non vorrebbe) e torna a casa di Susanna. Nelle settimane seguenti, Maisie e Lincoln fanno amicizia e iniziano a divertirsi a giocare assieme, tanto da suscitare le gelosie di Susanna la quale vorrebbe avere la figlia solo per sé.
Susanna parte per un tour con la band e Beale è a Londra per lavoro. Anche Lincoln deve lavorare e non può portare Maisie al bar con sé, così prova ad affidarla a Margo. La ragazza, però, è rimasta chiusa fuori di casa perché Beale non ha mai messo il nome di lei sul contratto. Margo se la prende con Lincoln ma ingiustamente, così per scusarsi gli prepara una torta e gliela porta mentre è al lavoro. I due ragazzi cominciano a parlare e a conoscersi meglio, tanto che dopo poco iniziano a uscire con a Maisie e a passare parecchio tempo assieme.
Nelle settimane successive Maisie continua ad essere sballottata tra una famiglia e l'altra e gli unici che sembrano essere davvero interessati alle sorti e alla salute della bimba sono proprio Margo e Lincoln.
Un giorno, mentre Maisie, Lincoln e Margo sono a Chinatown, incontrano per caso Susanna. Lei strappa la figlia dalle mani dei due ragazzi accusando Margo di essere una stalker e ordinando a Lincoln di non farsi più vedere. Quest'ultimo è ben felice di andarsene e accusa Susanna di non meritarsi la splendida figlia che ha. La stessa sera Susanna deve ripartire per il tour, così molla Maisie al bar di Lincoln senza avvertirlo o assicurarsi che lui sia là. Infatti quella è la sera libera di Lincoln, così Maisie viene accolta dai colleghi del ragazzo e fatta dormire da loro finché il mattino dopo Margo non va a prenderla.
Stufa di questa situazione assurda, Margo prende Maisie e la porta lontano dalla città, nella casa sfitta di una sua cugina. Qualche tempo dopo riappare Lincoln che si scusa con Margo e la bacia. I tre vivono assieme per un po' finché Susanna non torna per riprendersi Maisie. La bimba, però, non solo non vuole andare via con la madre, ma ne ha addirittura paura. Susanna finalmente capisce la situazione, dà a Maisie i regali che aveva comprato per lei e la lascia con Lincoln e Margo.

Quel che sapeva Maisie è un buon film, che ingrana lentamente e fino a metà coinvolge poco, per poi finalmente aprirsi e lasciar trasparire il suo lato interessante. L'inizio è estremamente classico: i due genitori litigano e usano a turno la bambina come arma contro l'altro. Ottenere la custodia di Maisie costituisce una vittoria solo perché l'ex coniuge non può averla e non per far realmente del bene alla bambina. E Maisie - il film ce lo mostra chiaramente! - capisce tutto questo, nonostante la sua giovane età (nelle recensioni si legge spesso che Maisie è «dotata di uno spiccato spirito d'osservazione»; io credo semplicemente che non sia una stupida e si renda conto di cosa succede attorno a lei). Un inizio classico e che avrebbe potuto portare a un film come se ne sono visti tanti: un film fatto di pianti, di ricatti sentimentali, di scaramucce, di assistenti sociali, eccetera. E, invece, dopo un po' il film prende una strada diversa, dimentica completamente i genitori e si concentra sulla bambina e sui suoi... "genitori acquisiti". I quali, sorprendentemente, acquistano un ruolo inaspettato e diventano loro i protagonisti – dopo Maisie, naturalmente! – del film.
Parliamo degli attori. Nel ruolo dei genitori di Maisie ci sono Julianne Moore e Steve Coogan, che però hanno decisamente i ruoli più facili, più banali (nel senso di già visti ma anche di piatti, nonostante siano spesso esagitati o arrabbiati) e meno interessanti. Chi davvero brilla per interpretazione è la piccola Onata Aprile, che riesce a interpretare Maisie in un modo estremamente naturale e credibile, e secondariamente i due attori che interpretano i nuovi compagni dei genitori di Maisie e a cui è affidata buona parte del film.
Quel che sapeva Maisie è tratto dal quasi omonimo romanzo di Henry James (il titolo italiano del libro era Ciò che sapeva Maisie), scritto nel 1897. Io non l'ho letto, quindi non so se la trasposizione - e soprattutto l'attualizzazione - sono state condotte in modo da non snaturarne il senso. Quello che posso dire, però, è che il film che McGehee e Siegel hanno confezionato è non comune ed estremamente godibile. È un film che si stacca dalla scia di altre pellicole sullo stesso tema e che mette Maisie al centro del film, lasciando che gli adulti le girino intorno, ognuno con la sua storia personale a cui Maisie, come ci sia aspetta da una bambina di sei anni, è poco interessata. È lei che deve essere il centro del mondo per gli adulti che le vogliono bene e il film coglie perfettamente questo aspetto. Certo, non ha innovazioni registiche o particolari snodi narrativi che faranno gridare al capolavoro, ma è un film che, superata la diffidenza iniziale, non delude. Un buon film che può piacere anche a chi non è un appassionato del genere.

venerdì 3 gennaio 2014

Il Mundial dimenticato (2011)


Il Mundial dimenticato
Italia/Argentina, 2011, b/n & colore, 95' (1h 35')
Regia di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni

Visto ieri su Rai Replay.

In Patagonia viene ritrovato un cadavere avvinghiato a una macchina da presa. Il corpo - o, meglio, le ossa - sono quelle di Guillermo Sandrini, operatore del Campionato Mondiale di Calcio tenutosi nel 1942 nella Patagonia Argentina. Viene così ricostruita la storia di questo "Mundial" di cui ancora oggi si sa pochissimo.
Tutto inizia quando il Conte Otz, Ministro dello Sport del Regno di Patagonia di allora, contatta la FIFA e Jules Rimet perché desidera organizzare il Mondiale del 1942 proprio in Patagonia, credendo che ciò possa essere un valido deterrente contro la guerra.
Al Mondiale partecipano 12 squadre e si inizia l'8 novembre 1942 con la partita Italia (detentrice del titolo e della Coppa Rimet) contro Real Patagonia. Le altre squadre sono: Brasile, Francia, Germania, Inghilterra, Mapuche (indiani originari della Patagonia), Polonia, Scozia, Spagna, Unione Sovietica e Uruguay.
La prima semifinale, Italia-Germania, è vinta dalla Germania per 4 a 3. L'altra semifinale è Mapuche-Inghilterra, finita 2-1 con l'uso, per la prima volta nella storia del calcio, della "moviola in campo".
Il 19 dicembre 1942 si gioca la finale. Arrivati all'1-1, un violento temporale si abbatte sulla regione e la diga si rompe, allagando tutto. Un'alluvione che sommerge interamente lo stadio - tutt'oggi ancora sotto il livello dell'acqua - e uccide Sandrini che non vuole separarsi dalla sua cinepresa.
Nessuno ha mai saputo come andò a finire quella partita finché non viene sviluppata la pellicola trovata tra le mani di Sandrini. Il filmato rivela che la vittoria fu dei Mapuche e che la Coppa Rimet venne rubata dall'arbitro William Brad Cassidy, figlio del più famoso bandito Butch Cassidy.

Il mockumentary, perché di questo si tratta, è molto bello, anche se con poco sforzo in più e un po' di maggior cura su certi particolari poteva diventare un vero capolavoro. Intendiamoci: la storia è molto ben costruita, anche se la parte che riguarda Helena Otz è un po' vaga e finisce per essere poco interessante, ma soprattutto sono i documenti ad essere perfetti. L'album di figurine è magistrale e El tango de Helena Otz è a dir poco sublime. In realtà è quasi tutto davvero stupefacente per fedeltà, plausibilità ed esattezza storica. Dico "quasi" perché purtroppo ci sono un paio di cadute di tono, quelle a cui si accennava qualche riga fa, che strappano lo spettatore dalla magia della ricostruzione e gli rivelano la falsità di quello che sta vedendo. E quello che più fa rabbia è che davvero bastava poco per evitare queste imperfezioni e ottenere un lavoro perfetto sotto ogni punto di vista. Mi riferisco in particolare alla voce e al testo di un falso cinegiornale dell'epoca, che suonano troppo finti per essere credibili, e al "lorem ipsum" che si legge distintamente nel testo che correda il catalogo che viene mostrato a metà film. Questi due pugni nello stomaco riportano lo spettatore alla realtà e purtroppo rimangono vistosi nei su un prodotto che altrimenti sarebbe meraviglioso.
Ad ogni modo il finto documentario risulta estremamente gradevole, grazie anche a degli attori straordinari e delle guest star del mondo del calcio (tra cui Roberto Baggio) che riescono a rendere credibile e godibile il tutto. Un mockumentary gustoso, che non punta solo a divertire ma riesce anche a ironizzare con sottile intelligenza sul mondo del calcio, sulla società di allora e - perché no? - su quella di oggi. Un film che merita la visione e che forse, per il fatto di essere un documentario e per di più finto, non ha avuto quel gran richiamo di pubblico e quella notorietà che invece meriterebbe.

lunedì 1 luglio 2013

Aspromonte (2012)


Aspromonte
Italia, 2012, colore, 78' (1h 18')
Regia di Hedy Crissane

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Per ottenere la sua firma su un documento di vendita del mobilificio di famiglia, il dottor Torquato Boatti (Franco Neri) dà la caccia al fratello Marco (Andrea De Rosa) che sta girando l'Aspromonte con la sua band. I due riescono a incontrarsi e Torquato offre al fratello i 25.000 € che costituiscono la sua parte dei soldi ricavati dalla vendita. Marco però rifiuta per principio, dal momento che i due non si vedono dalla morte del padre - morte che Marco si è perso perché Torquato non lo ha fatto entrare in ospedale essendosi presentato completamente ubriaco. Marco decide, quindi, di fuggire senza firmare il documento. Torquato ritiene che il fratello sia stato rapito e chiede aiuto ad Aldo Massa (Pier Maria Cecchini), il migliore guardaboschi della zona, per ritrovarlo.
Una sera Torquato trova sullo specchio della sua camera d'albergo un messaggio in cui si chiede di pagare un riscatto per rivedere Marco vivo. Torquato e Aldo girano a caso per l'Aspromonte finché non ritrovano Marco che non era stato affatto rapito ma se la sta spassando in un fiume con delle ragazze.
Il contratto per la vendita del mobilificio salta, ma Torquato e Marco ricostruiscono il legame fraterno perso alla morte del loro padre.

Il film, evidentemente realizzato con intenti propagandistici per mostrare le bellezze dell'Aspromonte, è di fatto penoso. Gli attori - tutti! - hanno gravi difficoltà con la recitazione, il montaggio è atroce e a volte sembra addirittura tagliare pezzi di dialogo, la sceneggiatura è talmente scadente che merita di essere analizzata a parte.
La sceneggiatura di questo film andrebbe additata a modello per mostrare come non si scrive per il Cinema. I dialoghi sono vuoti, pieni di buchi, ricchi di pause assolutamente fuori luogo. Le situazioni che vorrebbero essere comiche e che dovrebbero alleggerire il film sono semplicemente imbarazzanti. Si alterna dell'enciclopedismo fine a sé stesso (evidentemente nell'intento propagandistico di cui sopra) a una sfilza di scene completamente inutili e che non portano a niente. Cito, ad esempio: il personaggio che, seppur voltato di spalle, riesce a capire cosa sta facendo Torquato in quel momento; la mezza storia con la donna sposata che ad un certo punto sparisce per non riapparire mai più; tutti i mille personaggi improbabili che danno consigli non richiesti a Torquato solo per giustificare la sua "redenzione" a fine film; la telefonata con cui scopre che la moglie lo tradisce con il suo assistente, e anche di questa cosa non si parlerà più per il resto del film. E poi c'è il mio preferito: la scritta sullo specchio con la richiesta del riscatto per Marco. A parte che arriva a metà film, dopo che Torquato si è già convinto che il fratello sia stato rapito, ha avuto la mezza storia con la donna sposata e ha già passato mille avventure. Ma la domanda è: chi l'ha scritta? E perché? Marco non è stato rapito, non sa che il fratello crede che lui sia stato rapito e non gli interessano i soldi di Torquato (lo dice chiaramente all'inizio); nessuno degli altri personaggi mostra anche solo il minimo interesse al denaro né lascia trasparire in alcun modo di essere l'autore di quella scritta. E allora? Qual è il senso di quella scena? Tirare avanti il film ancora venti minuti? Far girare ancora Torquato e Aldo a caso (perché, diciamocelo, i due girano assolutamente a caso per tutto il film) finché, per pura fortuna, non trovano Marco?
Il film poi non finisce (i due fratelli si ritrovano e la storia muore là, sospesa) mentre sui titoli di coda scorrono i ciac sbagliati e il backstage, come nelle peggiori commediacce americane.
Un film completamente sbagliato. Sarebbe stato più onesto e più interessante realizzare con lo stesso sforzo produttivo un documentario o uno spot turistico sull'Aspromonte, sfruttando eventualmente il traino "zelighiano" (nel senso della trasmissione televisiva) di Franco Nero per fargli fare la voce fuori campo. Così, invece, il prodotto è meno che dozzinale e persino la forza delle immagini e la bellezza dei posti si perdono e non arrivano dove dovrebbero.

Aquadro (2013)


Aquadro
Italia, 2013, colore, 95' (1h 35')
Regia di Stefano Lodovichi

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Amanda (Maria Vittoria Barrella) è una sedicenne che in gita scolastica si innamora di Alberto (Lorenzo Colombi). Una sera che i genitori di Amanda non ci sono, lei invita Alberto a casa ma quando i due ragazzi sono in intimità sul letto, lui all'improvviso si alza e se ne va. Arrivato a casa, Alberto si confida con Nanà (Ilaria Giachi), una webcam girl con cui è solito intrattenersi. Cercando in Internet il nick Skype di Alberto, Amanda scopre che il ragazzo frequenta le chat per guardoni. All'inizio la ragazza è spaventata, ma poi comincia a giocare in webcam con Alberto, facendogli un quiz sulle di lei abitudini e spogliandosi lentamente a ogni risposta esatta del ragazzo. Alberto, ossessionato dalle webcam, comincia a filmare Amanda col cellulare in ogni occasione.
Durante un'assemblea studentesca, i due ragazzi rubano le chiavi di un'aula e lì fanno sesso - Amanda per la prima volta. Tutta la scena è ripresa da Alberto col cellulare. Una volta a casa, Alberto manda a Nanà il video pensando che la web girl sia una sua amica ma la ragazza gli sbatte in faccia la realtà: lei è solo pagata per parlare con lui. Ne nasce un diverbio in cui Alberto insulta Nanà dicendole di non essere nessuno. La ragazza allora si vendica pubblicando il video su Internet. Il giorno dopo tutta la scuola lo viene a sapere e, per deridere Amanda, qualcuno riproduce con lo spray il peculiare tatuaggio che la ragazza ha disegnato e si è fatta fare e che simboleggia il suo amore per Alberto.
Alberto va a parlare con Amanda, cercando di spiegare ma lei lo affronta a brutto muso. Alberto allora rivela ad Amanda di essersi fatto anche lui lo stesso tatuaggio, nonostante la sua risaputa avversione per i tatuaggi. Amanda rimane interdetta e si scopre ancora innamorata di Alberto. I due scappano di casa, per paura di affrontare i rispettivi genitori, e si rifugiano in Austria. Dopo un po', però, si rendono conto del loro errore e decidono di tornare a casa, con la promessa di restare sempre assieme e non lasciarsi mai.

Aquadro, spiace dirlo, è praticamente un corto allungato. Spiace dirlo perché in realtà il film è ben diretto da Stefano Lodovichi, alla sua prima esperienza con un lungometraggio intero (intero perché Lodovichi è uno dei 29 nomi che figurano come regista de Il pranzo di Natale), e ben interpretato da tutto il cast. Però risulta chiaro che la vicenda avrebbe potuto essere sviluppata compiutamente in soli 30 minuti. Certo, le varie fasi della storia sono raccontate con una maggior dovizia di particolari, ma purtroppo risultano vuote e prive di spessore, e questo rende noioso il film che altrimenti avrebbe potuto portare ottimi spunti di riflessione.
Il racconto dei due ragazzi viene condotto con attenzione, con un garbo e una cura che solitamente molti film non hanno. Gli sceneggiatori (lo stesso Stefano Lodovichi assieme a Davide Orsini) sono riusciti a rendere credibili i rapporti tra i sedicenni di oggi, cosa non facile e su cui molti film sono caduti e cadono ancora. Però si nota anche come, a volte, per portare a casa il risultato si forzi un po' troppo la realtà (per esempio: il fatto che Amanda abbia un avocado in casa; il fatto che Alberto viva da solo e possegga una carta di credito; il fatto che la web girl sia gelosa di un ragazzino; il fatto che in un solo giorno tutta la scuola sia a conoscenza del video con Amanda). Insomma, io credo che, nonostante la sceneggiatura abbia vinto nel 2012 il Premio Internazionale Mattador, un minimo di revisione avrebbe giovato al film. Tanto più che il messaggio di fondo è bello, forte e, una volta tanto, non retorico. Ecco perché questo senso di incompiutezza e, a tratti, di faciloneria spiace ancora di più.
Tecnicamente, ripeto, il film è buono: Lodovichi ha una regia pulita e interessante e mi farebbe piacere vederlo alla prova con altri copioni, ma questo film ahimé zoppica un po' troppo.

domenica 30 giugno 2013

Searching for Sugar Man (2012)


Searching for Sugar Man
Searching for Sugar Man, Svezia/UK, 2012, colore e b/n, 86' (1h 26')
Regia di Malik Bendjelloul

Visto ieri al cinema Ariston dei Fabbri di Trieste.

Sixto Rodriguez era un cantautore statunitense (ma con origini messicane) di stampo dylaniano che nei primi anni '70 ha inciso due dischi di scarsissimo successo commerciale, nonostante gli addetti ai lavori considerassero Rodriguez un genio e valutassero i suoi testi migliori persino di quelli del già citato Dylan. Ben presto Rodriguez sparì dalla circolazione ma i suoi due dischi, arrivati fortuitamente in Sudafrica, riscossero un successo strepitoso e costituirono un primo inizio alla guerra contro l'Apartheid. In questo modo in Sudafrica Rodriguez è diventato uno dei cantanti più famosi e seguiti. Tanto grande la fama e tanto scarse le informazioni su di lui, visto che tutto quello che si sa di Rodriguez è che è morto suicida in circostanze misteriose (alcuni dicono che si sia sparato dopo un concerto andato male, altri che si sia addirittura dato fuoco). Due giornalisti musicali, Stephen "Sugar" Segerman e Craig Bartholomew Strydom, decidono così di raccogliere informazioni su Rodriguez e cercare di ricostruire la sua vita finché scoprono, con estrema sorpresa, che l'uomo non è affatto morto ma è vivo e vegeto e ha una famiglia a Detroit.
I due giornalisti lo vanno a trovare e lo invitano a tenere una serie di concerti in Sudafrica che faranno il tutto esaurito con decine di migliaia di spettatori.

Searching for Sugar Man è un documentario straordinario dove in ogni istante traspaiono profondi l'amore e la passione che gli autori hanno per Rodriguez. La storia viene svelata poco a poco, senza inutili spoiler, lasciando lo spettatore sempre incuriosito e desideroso di sapere come evolverà la vicenda. Ed è interessante come la stessa identica tensione il regista sia riuscito a mantenerla non solo nella prima parte, quella della ricerca, ma anche nella seconda parte, quando la curiosità di sapere che fine abbia fatto Rodriguez è ormai scemata. Un film che, oltretutto, prescinde l'interesse per il tipo di musica raccontato ma che diventa un racconto universale di ricerca e di documentazione.
Le riprese sono stupende: inquadrature non banali, ricercate ma apparentemente semplici e naturali, come ad esempio quelle iniziali di Detroit, non comuni ma precise e puntuali nel descrivere l'ambiente raccontato, oppure la carrellata che dal mostrare Cape Town finisce nel negozio di dischi col proprietario che porta dentro la tabella. Si capisce, insomma, che c'è stato un lavoro non indifferente di ricerca delle location e delle inquadrature e di ciò va dato merito al regista.
In definitiva, un film che va visto assolutamente e che può andare fiero di avere conquistato nel 2013 l'Oscar® come miglior documentario.

lunedì 24 giugno 2013

Imago mortis (2009)


Imago mortis
Italia/Spagna/Irlanda, 2009, colore, 96' (1h 36')
Regia di Stefano Bessoni

Visto ieri su Italia 1.

Bruno (Alberto Amarilla) è uno studente spiantato, rimasto orfano da poco, che frequenta il corso di Cinematografia all'università F. W. Murnau e che, per guadagnare qualche soldo extra, gestisce e riordina l'archivio cinematografico della scuola.
Un giorno, intento a fare foto per un compito, vede un cadavere sgozzato che apre gli occhi, lo fissa e si alza in piedi. È, ovviamente, un'allucinazione ma Bruno continua ad averne, e in tutte vede sempre lo stesso ragazzo, prima che gli indica qualcosa nell'archivio e poi in mezzo a un bosco. Guardando la pellicola indicatagli nella visione (un vecchio filmato di una gita nei dintorni dell'istituto) Bruno vede lo stesso ragazzo in una grotta, detta "il pozzo della morte", distante solo un'ora dalla scuola.
Bruno decide di andare a visitare il luogo in compagnia di Arianna (Oona Chaplin), un'altra allieva dell'ateneo, e là i due trovano un "tanatoscopio", uno strumento che, ben prima della fotografia, cercava di catturare le immagini dalle retine degli occhi delle persone appena morte. Tutti i professori dell'istituto sono molto interessati all'oggetto, in particolare il professor Olinsky (Álex Angulo). Qualcuno, però, ruba l'apparecchio dalla camera di Bruno. Olinsky è tassativo: o Bruno ritrova il tanatoscopio o verrà espulso dall'università.
Un giorno Bruno va dal signor Astolfi (Francesco Carnelutti) per ritirare vecchi film per l'archivio. Là Bruno, notando su un tavolino i tentativi di Astolfi per ricostruire un tanatoscopio, racconta all'uomo la storia del ritrovamento e la strana reazione di Olinsky. Astolfi caccia Bruno in malo modo, senza dare spiegazioni. La sera, tornando nella sua stanza, Bruno trova un agnello scuoiato e sventrato, inchiodato a un tavolo.
Bruno e Arianna cercano informazioni e finiscono dalla contessa Orsini (Geraldine Chaplin), proprietaria della scuola, che spiega loro che il tanatoscopio ritrovato era originale e faceva parte di un film tedesco incompiuto. Una volta acquistato dalla contessa, assieme alla sceneggiatura originale del film, Astolfi e Olinsky avevano deciso di completare la pellicola girando le scene mancanti. Durante la realizzazione del film, però, una ragazza - fidanzata del figlio di Astolfi, Sebastiano (Lorenzo Pedrotti) - morì proprio a causa del tanatoscopio. Sebastiano nascose l'oggetto e si suicidò gettandosi da una finestra.
Bruno e Arianna guardano il film incriminato e scoprono che il fantasma visto da Bruno è proprio Sebastiano. Così Bruno decide di intrufolarsi in casa di Astolfi per cercare il tanatoscopio, sospettando che possa averlo rubato lui, e là vede i fantasmi di Sebastiano e della ragazza. Spaventato, Bruno corre da Orfeo (Paolo De Vita), il "bidello" della scuola, ma lo trova inchiodato al tavolo e senza occhi. Bruno tenta di rivelare i suoi sospetti alla contessa ma Olinsky lo prende per pazzo e, davanti a tutta la scuola, gli dà sottilmente del disturbato.
Una notte Bruno trova Elena (Silvia De Santis) e Matteo (Matteo Danese) morti ma, prima che possa avvisare qualcuno, viene colpito e cade svenuto. Al mattino dei corpi non c'è traccia ma i due studenti mancano all'appello. Anche Aki (Jun Ichikawa) e Ozu (Kenji Kohashi), altri due studenti dell'ateneo, vengono uccisi.
Bruno si reca da Astolfi che sproloquia dando l'impressione di essere il colpevole. Bruno allora cerca Arianna ma viene aggredito da Leilou (Leticia Dolera) che è la vera colpevole e che l'ha fatto per realizzare il suo corto e fare buona impressione su Olinsky (il quale le ha insegnato come usare l'apparecchio). Arriva Astolfi che ferisce a morte Leilou, salvando così Bruno e Arianna, e che realizza su di sé una tanatografia perfetta (ovvero la tanatografia di una persona che muore nello stesso istante del soggetto della tanatografia), nella speranza che questo chiuda il cerchio e liberi l'anima di Sebastiano. La tanatografia riesce e le anime dei due ragazzi se ne vanno felici.
Bruno e Arianna lasciano per sempre l'istituto mentre Olinsky e la contessa si beano del ritrovamento della macchina, della tanatografia di Astolfi e delle riprese di Leilou.

Il film, dal punto di vista tecnico, non è così male. La regia è interessante, mostra ciò che deve mostrare, nasconde ciò che non va visto ed è, tutto sommato, buona. I problemi sorgono in fase di sceneggiatura e di montaggio. Ci sono scene completamente prive di senso: Bruno che trova l'agnello sgozzato, realizzata col solo intento di far sobbalzare sulla poltrona lo spettatore; lo studente che osserva il dialogo tra Bruno ed Elena; la contessa che lecca un serpente. Scene inutili, slegate dal conteso e che lasciano solamente perplessi, senza aggiungere niente alla trama.
E poi: tutta la storia delle foto per scegliere (testuale) «i ruoli in un corto» (credevo si basassero sulle competenze cinematografiche, non sull'abilità di fare le foto migliori); il fatto che il colpevole sia una sconosciuta che appare quasi mai nel film; l'orrido (e stupido) movente per i delitti; il fatto che muoiano (almeno) cinque persone ma che nessuno, a parte Bruno, si preoccupi di dove siano finite.
E ancora, la paraculaggine dei riferimenti a un certo Cinema: l'istituto Murnau, il nomignolo "Caligari" con cui viene chiamato Olinsky, lo studente che si firma con lo pseudonimo Topor, lo studente che si chiama Ozu...
Insomma, in sé non un brutto film (il successivo Krokodyle, sempre dello stesso autore e regista, è molto peggio) ma più cura in alcuni aspetti, specialmente in quello della scrittura, avrebbe giovato perché, visto così, il film appare davvero come una sciocchezzuola raffazzonata.

Speed Racer (2008)


Speed Racer
Speed Racer, USA/Australia/Germania, 2008, colore, 135' (2h 15')
Regia di Andy & Larry Wachowski

Visto ieri su Italia 1.

Speed Racer (Emile Hirsch) è un pilota di macchine da corsa, segnato dalla morte di suo fratello maggiore Max, coinvolto in un rally pericolosissimo detto "Casa Cristo". Speed gestisce una piccola officina con il padre Pops (John Goodman), la madre (Susan Sarandon), la fidanzata Trixie (Christina Ricci), il fratello minore Spritle (Paulie Litt) e la di lui scimmietta. In breve tempo Speed diventa un campione guidando la Mach 5, che era la vecchia macchina del fratello, pur mantenendo sempre la massima correttezza in tutte le gare.
Quando Mr. Royalton (Roger Allam) chiede a Speed di correre per lui, questi rifiuta sostenendo che nelle corse l'importante è la famiglia e che i molti soldi che Royalton gli offre annullerebbero la magia delle gare. Royalton gli fa capire che le corse sono governate da interessi commerciali e che se Speed vuole avere successo deve entrare nella sua scuderia oppure Royalton intenterà a Pops cause milionarie completamente inventate e farà in modo che la famiglia Racer non vinca più una gara. Speed rifiuta e Royalton mantiene la sua minaccia, ma questo non intacca lo spirito combattivo del ragazzo.
Un giorno l'ispettore Detector (Benno Fürmann) e Racer X (Matthew Fox), un pilota mascherato che si batte affinché le corse tornino pulite, chiedono aiuto a Speed per gareggiare nella Casa Cristo. Pops nega al figlio il permesso di partecipare alla corsa ma Speed e Trixie decidono di accettare ugualmente la proposta e di scendere in pista. Per l'anticrimine gareggiano Speed, Racer X e Taejo (Rain), un giovane orientale che possiede delle informazioni preziose su Royalton ma che ha promesso di rivelarle solo se vincerà il rally. I genitori di Speed vengono a sapere della gara e cercano di convincere il figlio a tornare a casa ma Speed si rifiuta, così ai due non resta altro che dare al ragazzo il loro sostegno.
Durante la notte i tre concorrenti vengono aggrediti e a Taejo viene somministrato un siero debilitante. Così, per poter proseguire la corsa, il giorno dopo il suo posto viene preso da Trixie - almeno fino a metà gara quando, dopo una scazzottata con gli scagnozzi di Royalton, Taejo riprende a gareggiare. Taejo vince e ben presto si scopre che il ragazzo non ha niente contro Royalton ma ha organizzato tutta la messinscena per far salire in Borsa la quotazione delle azioni della sua società. Horuko (Yu Nan), la sorella di Taejo, consegna a Speed l'invito per partecipare al Gran Prix.
I Racer costruiscono a tempo di record un'auto da corsa e Speed, grazie all'aiuto dell'ispettore Detector e forte del regolamento, viene ammesso alla gara. Royalton mette una taglia sulla testa di Speed ma questo non impedisce al ragazzo di vincere la corsa e di far notare in mondovisione una grave scorrettezza di Royalton per la quale l'imprenditore verrà arrestato. Intanto si scopre che Racer X è Max, il fratello di Speed, fintosi morto e che ha cambiato volto (grazie a una plastica) e identità per non essere riconosciuto.
Speed bacia Trixie sul podio e per lui si aprirà una carriera piena di successi.

Il film è tratto da un famoso anime giapponese, Mach Go! Go! Go!, e vorrebbe ricrearne le atmosfere, ma riesce ad essere solo patetico. Tutto è fatto al computer, dipinto con tinte sgargianti e pacchiane e fa risultare l'ambiente troppo artefatto. Addirittura le stesse corse, che dovrebbero essere il nucleo del film, sono ricostruite al PC. Questo le rende ridondanti, confuse e noiose perché non hanno nessun tipo di appeal per lo spettatore. La recitazione degli attori è molto sottotono, anche da parte degli altrimenti bravi John Goodman e Christina Ricci. Le situazioni, poi, sono talmente stupide che scavalcano il limite del concesso per un film, anche se per bambini, soprattutto se porta la firma dei fratelli Wachowski (i siparietti tra Spritle e la scimmia sono a dir poco imbarazzanti e la gag tra Speed e Trixie che fino alla fine non riescono mai a baciarsi è una delle più vecchie, trite e non divertenti che possano esistere).
Inoltre: i flashback e i flashforward si affastellano confusamente durante tutto il film, rendendo difficile la comprensione della vicenda; i combattimenti sembrano la brutta copia di quelli dei film di Bud Spencer e Terence Hill; il recap delle frasi clou del film che precede la vittoria di Speed è inutile e penoso; le transizioni con i profili delle persone, benché presenti già nell'anime originale, sono semplicemente brutti e gestiti male.
Insomma, un film sbagliato da ogni punto di vista, dozzinale, infantile e che davvero contrasta con il calibro delle persone coinvolte nel progetto.