lunedì 1 luglio 2013

Aspromonte (2012)


Aspromonte
Italia, 2012, colore, 78' (1h 18')
Regia di Hedy Crissane

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Per ottenere la sua firma su un documento di vendita del mobilificio di famiglia, il dottor Torquato Boatti (Franco Neri) dà la caccia al fratello Marco (Andrea De Rosa) che sta girando l'Aspromonte con la sua band. I due riescono a incontrarsi e Torquato offre al fratello i 25.000 € che costituiscono la sua parte dei soldi ricavati dalla vendita. Marco però rifiuta per principio, dal momento che i due non si vedono dalla morte del padre - morte che Marco si è perso perché Torquato non lo ha fatto entrare in ospedale essendosi presentato completamente ubriaco. Marco decide, quindi, di fuggire senza firmare il documento. Torquato ritiene che il fratello sia stato rapito e chiede aiuto ad Aldo Massa (Pier Maria Cecchini), il migliore guardaboschi della zona, per ritrovarlo.
Una sera Torquato trova sullo specchio della sua camera d'albergo un messaggio in cui si chiede di pagare un riscatto per rivedere Marco vivo. Torquato e Aldo girano a caso per l'Aspromonte finché non ritrovano Marco che non era stato affatto rapito ma se la sta spassando in un fiume con delle ragazze.
Il contratto per la vendita del mobilificio salta, ma Torquato e Marco ricostruiscono il legame fraterno perso alla morte del loro padre.

Il film, evidentemente realizzato con intenti propagandistici per mostrare le bellezze dell'Aspromonte, è di fatto penoso. Gli attori - tutti! - hanno gravi difficoltà con la recitazione, il montaggio è atroce e a volte sembra addirittura tagliare pezzi di dialogo, la sceneggiatura è talmente scadente che merita di essere analizzata a parte.
La sceneggiatura di questo film andrebbe additata a modello per mostrare come non si scrive per il Cinema. I dialoghi sono vuoti, pieni di buchi, ricchi di pause assolutamente fuori luogo. Le situazioni che vorrebbero essere comiche e che dovrebbero alleggerire il film sono semplicemente imbarazzanti. Si alterna dell'enciclopedismo fine a sé stesso (evidentemente nell'intento propagandistico di cui sopra) a una sfilza di scene completamente inutili e che non portano a niente. Cito, ad esempio: il personaggio che, seppur voltato di spalle, riesce a capire cosa sta facendo Torquato in quel momento; la mezza storia con la donna sposata che ad un certo punto sparisce per non riapparire mai più; tutti i mille personaggi improbabili che danno consigli non richiesti a Torquato solo per giustificare la sua "redenzione" a fine film; la telefonata con cui scopre che la moglie lo tradisce con il suo assistente, e anche di questa cosa non si parlerà più per il resto del film. E poi c'è il mio preferito: la scritta sullo specchio con la richiesta del riscatto per Marco. A parte che arriva a metà film, dopo che Torquato si è già convinto che il fratello sia stato rapito, ha avuto la mezza storia con la donna sposata e ha già passato mille avventure. Ma la domanda è: chi l'ha scritta? E perché? Marco non è stato rapito, non sa che il fratello crede che lui sia stato rapito e non gli interessano i soldi di Torquato (lo dice chiaramente all'inizio); nessuno degli altri personaggi mostra anche solo il minimo interesse al denaro né lascia trasparire in alcun modo di essere l'autore di quella scritta. E allora? Qual è il senso di quella scena? Tirare avanti il film ancora venti minuti? Far girare ancora Torquato e Aldo a caso (perché, diciamocelo, i due girano assolutamente a caso per tutto il film) finché, per pura fortuna, non trovano Marco?
Il film poi non finisce (i due fratelli si ritrovano e la storia muore là, sospesa) mentre sui titoli di coda scorrono i ciac sbagliati e il backstage, come nelle peggiori commediacce americane.
Un film completamente sbagliato. Sarebbe stato più onesto e più interessante realizzare con lo stesso sforzo produttivo un documentario o uno spot turistico sull'Aspromonte, sfruttando eventualmente il traino "zelighiano" (nel senso della trasmissione televisiva) di Franco Nero per fargli fare la voce fuori campo. Così, invece, il prodotto è meno che dozzinale e persino la forza delle immagini e la bellezza dei posti si perdono e non arrivano dove dovrebbero.

Aquadro (2013)


Aquadro
Italia, 2013, colore, 95' (1h 35')
Regia di Stefano Lodovichi

Visto ieri a Maremetraggio al Teatro Miela.

Amanda (Maria Vittoria Barrella) è una sedicenne che in gita scolastica si innamora di Alberto (Lorenzo Colombi). Una sera che i genitori di Amanda non ci sono, lei invita Alberto a casa ma quando i due ragazzi sono in intimità sul letto, lui all'improvviso si alza e se ne va. Arrivato a casa, Alberto si confida con Nanà (Ilaria Giachi), una webcam girl con cui è solito intrattenersi. Cercando in Internet il nick Skype di Alberto, Amanda scopre che il ragazzo frequenta le chat per guardoni. All'inizio la ragazza è spaventata, ma poi comincia a giocare in webcam con Alberto, facendogli un quiz sulle di lei abitudini e spogliandosi lentamente a ogni risposta esatta del ragazzo. Alberto, ossessionato dalle webcam, comincia a filmare Amanda col cellulare in ogni occasione.
Durante un'assemblea studentesca, i due ragazzi rubano le chiavi di un'aula e lì fanno sesso - Amanda per la prima volta. Tutta la scena è ripresa da Alberto col cellulare. Una volta a casa, Alberto manda a Nanà il video pensando che la web girl sia una sua amica ma la ragazza gli sbatte in faccia la realtà: lei è solo pagata per parlare con lui. Ne nasce un diverbio in cui Alberto insulta Nanà dicendole di non essere nessuno. La ragazza allora si vendica pubblicando il video su Internet. Il giorno dopo tutta la scuola lo viene a sapere e, per deridere Amanda, qualcuno riproduce con lo spray il peculiare tatuaggio che la ragazza ha disegnato e si è fatta fare e che simboleggia il suo amore per Alberto.
Alberto va a parlare con Amanda, cercando di spiegare ma lei lo affronta a brutto muso. Alberto allora rivela ad Amanda di essersi fatto anche lui lo stesso tatuaggio, nonostante la sua risaputa avversione per i tatuaggi. Amanda rimane interdetta e si scopre ancora innamorata di Alberto. I due scappano di casa, per paura di affrontare i rispettivi genitori, e si rifugiano in Austria. Dopo un po', però, si rendono conto del loro errore e decidono di tornare a casa, con la promessa di restare sempre assieme e non lasciarsi mai.

Aquadro, spiace dirlo, è praticamente un corto allungato. Spiace dirlo perché in realtà il film è ben diretto da Stefano Lodovichi, alla sua prima esperienza con un lungometraggio intero (intero perché Lodovichi è uno dei 29 nomi che figurano come regista de Il pranzo di Natale), e ben interpretato da tutto il cast. Però risulta chiaro che la vicenda avrebbe potuto essere sviluppata compiutamente in soli 30 minuti. Certo, le varie fasi della storia sono raccontate con una maggior dovizia di particolari, ma purtroppo risultano vuote e prive di spessore, e questo rende noioso il film che altrimenti avrebbe potuto portare ottimi spunti di riflessione.
Il racconto dei due ragazzi viene condotto con attenzione, con un garbo e una cura che solitamente molti film non hanno. Gli sceneggiatori (lo stesso Stefano Lodovichi assieme a Davide Orsini) sono riusciti a rendere credibili i rapporti tra i sedicenni di oggi, cosa non facile e su cui molti film sono caduti e cadono ancora. Però si nota anche come, a volte, per portare a casa il risultato si forzi un po' troppo la realtà (per esempio: il fatto che Amanda abbia un avocado in casa; il fatto che Alberto viva da solo e possegga una carta di credito; il fatto che la web girl sia gelosa di un ragazzino; il fatto che in un solo giorno tutta la scuola sia a conoscenza del video con Amanda). Insomma, io credo che, nonostante la sceneggiatura abbia vinto nel 2012 il Premio Internazionale Mattador, un minimo di revisione avrebbe giovato al film. Tanto più che il messaggio di fondo è bello, forte e, una volta tanto, non retorico. Ecco perché questo senso di incompiutezza e, a tratti, di faciloneria spiace ancora di più.
Tecnicamente, ripeto, il film è buono: Lodovichi ha una regia pulita e interessante e mi farebbe piacere vederlo alla prova con altri copioni, ma questo film ahimé zoppica un po' troppo.

domenica 30 giugno 2013

Searching for Sugar Man (2012)


Searching for Sugar Man
Searching for Sugar Man, Svezia/UK, 2012, colore e b/n, 86' (1h 26')
Regia di Malik Bendjelloul

Visto ieri al cinema Ariston dei Fabbri di Trieste.

Sixto Rodriguez era un cantautore statunitense (ma con origini messicane) di stampo dylaniano che nei primi anni '70 ha inciso due dischi di scarsissimo successo commerciale, nonostante gli addetti ai lavori considerassero Rodriguez un genio e valutassero i suoi testi migliori persino di quelli del già citato Dylan. Ben presto Rodriguez sparì dalla circolazione ma i suoi due dischi, arrivati fortuitamente in Sudafrica, riscossero un successo strepitoso e costituirono un primo inizio alla guerra contro l'Apartheid. In questo modo in Sudafrica Rodriguez è diventato uno dei cantanti più famosi e seguiti. Tanto grande la fama e tanto scarse le informazioni su di lui, visto che tutto quello che si sa di Rodriguez è che è morto suicida in circostanze misteriose (alcuni dicono che si sia sparato dopo un concerto andato male, altri che si sia addirittura dato fuoco). Due giornalisti musicali, Stephen "Sugar" Segerman e Craig Bartholomew Strydom, decidono così di raccogliere informazioni su Rodriguez e cercare di ricostruire la sua vita finché scoprono, con estrema sorpresa, che l'uomo non è affatto morto ma è vivo e vegeto e ha una famiglia a Detroit.
I due giornalisti lo vanno a trovare e lo invitano a tenere una serie di concerti in Sudafrica che faranno il tutto esaurito con decine di migliaia di spettatori.

Searching for Sugar Man è un documentario straordinario dove in ogni istante traspaiono profondi l'amore e la passione che gli autori hanno per Rodriguez. La storia viene svelata poco a poco, senza inutili spoiler, lasciando lo spettatore sempre incuriosito e desideroso di sapere come evolverà la vicenda. Ed è interessante come la stessa identica tensione il regista sia riuscito a mantenerla non solo nella prima parte, quella della ricerca, ma anche nella seconda parte, quando la curiosità di sapere che fine abbia fatto Rodriguez è ormai scemata. Un film che, oltretutto, prescinde l'interesse per il tipo di musica raccontato ma che diventa un racconto universale di ricerca e di documentazione.
Le riprese sono stupende: inquadrature non banali, ricercate ma apparentemente semplici e naturali, come ad esempio quelle iniziali di Detroit, non comuni ma precise e puntuali nel descrivere l'ambiente raccontato, oppure la carrellata che dal mostrare Cape Town finisce nel negozio di dischi col proprietario che porta dentro la tabella. Si capisce, insomma, che c'è stato un lavoro non indifferente di ricerca delle location e delle inquadrature e di ciò va dato merito al regista.
In definitiva, un film che va visto assolutamente e che può andare fiero di avere conquistato nel 2013 l'Oscar® come miglior documentario.

lunedì 24 giugno 2013

Imago mortis (2009)


Imago mortis
Italia/Spagna/Irlanda, 2009, colore, 96' (1h 36')
Regia di Stefano Bessoni

Visto ieri su Italia 1.

Bruno (Alberto Amarilla) è uno studente spiantato, rimasto orfano da poco, che frequenta il corso di Cinematografia all'università F. W. Murnau e che, per guadagnare qualche soldo extra, gestisce e riordina l'archivio cinematografico della scuola.
Un giorno, intento a fare foto per un compito, vede un cadavere sgozzato che apre gli occhi, lo fissa e si alza in piedi. È, ovviamente, un'allucinazione ma Bruno continua ad averne, e in tutte vede sempre lo stesso ragazzo, prima che gli indica qualcosa nell'archivio e poi in mezzo a un bosco. Guardando la pellicola indicatagli nella visione (un vecchio filmato di una gita nei dintorni dell'istituto) Bruno vede lo stesso ragazzo in una grotta, detta "il pozzo della morte", distante solo un'ora dalla scuola.
Bruno decide di andare a visitare il luogo in compagnia di Arianna (Oona Chaplin), un'altra allieva dell'ateneo, e là i due trovano un "tanatoscopio", uno strumento che, ben prima della fotografia, cercava di catturare le immagini dalle retine degli occhi delle persone appena morte. Tutti i professori dell'istituto sono molto interessati all'oggetto, in particolare il professor Olinsky (Álex Angulo). Qualcuno, però, ruba l'apparecchio dalla camera di Bruno. Olinsky è tassativo: o Bruno ritrova il tanatoscopio o verrà espulso dall'università.
Un giorno Bruno va dal signor Astolfi (Francesco Carnelutti) per ritirare vecchi film per l'archivio. Là Bruno, notando su un tavolino i tentativi di Astolfi per ricostruire un tanatoscopio, racconta all'uomo la storia del ritrovamento e la strana reazione di Olinsky. Astolfi caccia Bruno in malo modo, senza dare spiegazioni. La sera, tornando nella sua stanza, Bruno trova un agnello scuoiato e sventrato, inchiodato a un tavolo.
Bruno e Arianna cercano informazioni e finiscono dalla contessa Orsini (Geraldine Chaplin), proprietaria della scuola, che spiega loro che il tanatoscopio ritrovato era originale e faceva parte di un film tedesco incompiuto. Una volta acquistato dalla contessa, assieme alla sceneggiatura originale del film, Astolfi e Olinsky avevano deciso di completare la pellicola girando le scene mancanti. Durante la realizzazione del film, però, una ragazza - fidanzata del figlio di Astolfi, Sebastiano (Lorenzo Pedrotti) - morì proprio a causa del tanatoscopio. Sebastiano nascose l'oggetto e si suicidò gettandosi da una finestra.
Bruno e Arianna guardano il film incriminato e scoprono che il fantasma visto da Bruno è proprio Sebastiano. Così Bruno decide di intrufolarsi in casa di Astolfi per cercare il tanatoscopio, sospettando che possa averlo rubato lui, e là vede i fantasmi di Sebastiano e della ragazza. Spaventato, Bruno corre da Orfeo (Paolo De Vita), il "bidello" della scuola, ma lo trova inchiodato al tavolo e senza occhi. Bruno tenta di rivelare i suoi sospetti alla contessa ma Olinsky lo prende per pazzo e, davanti a tutta la scuola, gli dà sottilmente del disturbato.
Una notte Bruno trova Elena (Silvia De Santis) e Matteo (Matteo Danese) morti ma, prima che possa avvisare qualcuno, viene colpito e cade svenuto. Al mattino dei corpi non c'è traccia ma i due studenti mancano all'appello. Anche Aki (Jun Ichikawa) e Ozu (Kenji Kohashi), altri due studenti dell'ateneo, vengono uccisi.
Bruno si reca da Astolfi che sproloquia dando l'impressione di essere il colpevole. Bruno allora cerca Arianna ma viene aggredito da Leilou (Leticia Dolera) che è la vera colpevole e che l'ha fatto per realizzare il suo corto e fare buona impressione su Olinsky (il quale le ha insegnato come usare l'apparecchio). Arriva Astolfi che ferisce a morte Leilou, salvando così Bruno e Arianna, e che realizza su di sé una tanatografia perfetta (ovvero la tanatografia di una persona che muore nello stesso istante del soggetto della tanatografia), nella speranza che questo chiuda il cerchio e liberi l'anima di Sebastiano. La tanatografia riesce e le anime dei due ragazzi se ne vanno felici.
Bruno e Arianna lasciano per sempre l'istituto mentre Olinsky e la contessa si beano del ritrovamento della macchina, della tanatografia di Astolfi e delle riprese di Leilou.

Il film, dal punto di vista tecnico, non è così male. La regia è interessante, mostra ciò che deve mostrare, nasconde ciò che non va visto ed è, tutto sommato, buona. I problemi sorgono in fase di sceneggiatura e di montaggio. Ci sono scene completamente prive di senso: Bruno che trova l'agnello sgozzato, realizzata col solo intento di far sobbalzare sulla poltrona lo spettatore; lo studente che osserva il dialogo tra Bruno ed Elena; la contessa che lecca un serpente. Scene inutili, slegate dal conteso e che lasciano solamente perplessi, senza aggiungere niente alla trama.
E poi: tutta la storia delle foto per scegliere (testuale) «i ruoli in un corto» (credevo si basassero sulle competenze cinematografiche, non sull'abilità di fare le foto migliori); il fatto che il colpevole sia una sconosciuta che appare quasi mai nel film; l'orrido (e stupido) movente per i delitti; il fatto che muoiano (almeno) cinque persone ma che nessuno, a parte Bruno, si preoccupi di dove siano finite.
E ancora, la paraculaggine dei riferimenti a un certo Cinema: l'istituto Murnau, il nomignolo "Caligari" con cui viene chiamato Olinsky, lo studente che si firma con lo pseudonimo Topor, lo studente che si chiama Ozu...
Insomma, in sé non un brutto film (il successivo Krokodyle, sempre dello stesso autore e regista, è molto peggio) ma più cura in alcuni aspetti, specialmente in quello della scrittura, avrebbe giovato perché, visto così, il film appare davvero come una sciocchezzuola raffazzonata.

Speed Racer (2008)


Speed Racer
Speed Racer, USA/Australia/Germania, 2008, colore, 135' (2h 15')
Regia di Andy & Larry Wachowski

Visto ieri su Italia 1.

Speed Racer (Emile Hirsch) è un pilota di macchine da corsa, segnato dalla morte di suo fratello maggiore Max, coinvolto in un rally pericolosissimo detto "Casa Cristo". Speed gestisce una piccola officina con il padre Pops (John Goodman), la madre (Susan Sarandon), la fidanzata Trixie (Christina Ricci), il fratello minore Spritle (Paulie Litt) e la di lui scimmietta. In breve tempo Speed diventa un campione guidando la Mach 5, che era la vecchia macchina del fratello, pur mantenendo sempre la massima correttezza in tutte le gare.
Quando Mr. Royalton (Roger Allam) chiede a Speed di correre per lui, questi rifiuta sostenendo che nelle corse l'importante è la famiglia e che i molti soldi che Royalton gli offre annullerebbero la magia delle gare. Royalton gli fa capire che le corse sono governate da interessi commerciali e che se Speed vuole avere successo deve entrare nella sua scuderia oppure Royalton intenterà a Pops cause milionarie completamente inventate e farà in modo che la famiglia Racer non vinca più una gara. Speed rifiuta e Royalton mantiene la sua minaccia, ma questo non intacca lo spirito combattivo del ragazzo.
Un giorno l'ispettore Detector (Benno Fürmann) e Racer X (Matthew Fox), un pilota mascherato che si batte affinché le corse tornino pulite, chiedono aiuto a Speed per gareggiare nella Casa Cristo. Pops nega al figlio il permesso di partecipare alla corsa ma Speed e Trixie decidono di accettare ugualmente la proposta e di scendere in pista. Per l'anticrimine gareggiano Speed, Racer X e Taejo (Rain), un giovane orientale che possiede delle informazioni preziose su Royalton ma che ha promesso di rivelarle solo se vincerà il rally. I genitori di Speed vengono a sapere della gara e cercano di convincere il figlio a tornare a casa ma Speed si rifiuta, così ai due non resta altro che dare al ragazzo il loro sostegno.
Durante la notte i tre concorrenti vengono aggrediti e a Taejo viene somministrato un siero debilitante. Così, per poter proseguire la corsa, il giorno dopo il suo posto viene preso da Trixie - almeno fino a metà gara quando, dopo una scazzottata con gli scagnozzi di Royalton, Taejo riprende a gareggiare. Taejo vince e ben presto si scopre che il ragazzo non ha niente contro Royalton ma ha organizzato tutta la messinscena per far salire in Borsa la quotazione delle azioni della sua società. Horuko (Yu Nan), la sorella di Taejo, consegna a Speed l'invito per partecipare al Gran Prix.
I Racer costruiscono a tempo di record un'auto da corsa e Speed, grazie all'aiuto dell'ispettore Detector e forte del regolamento, viene ammesso alla gara. Royalton mette una taglia sulla testa di Speed ma questo non impedisce al ragazzo di vincere la corsa e di far notare in mondovisione una grave scorrettezza di Royalton per la quale l'imprenditore verrà arrestato. Intanto si scopre che Racer X è Max, il fratello di Speed, fintosi morto e che ha cambiato volto (grazie a una plastica) e identità per non essere riconosciuto.
Speed bacia Trixie sul podio e per lui si aprirà una carriera piena di successi.

Il film è tratto da un famoso anime giapponese, Mach Go! Go! Go!, e vorrebbe ricrearne le atmosfere, ma riesce ad essere solo patetico. Tutto è fatto al computer, dipinto con tinte sgargianti e pacchiane e fa risultare l'ambiente troppo artefatto. Addirittura le stesse corse, che dovrebbero essere il nucleo del film, sono ricostruite al PC. Questo le rende ridondanti, confuse e noiose perché non hanno nessun tipo di appeal per lo spettatore. La recitazione degli attori è molto sottotono, anche da parte degli altrimenti bravi John Goodman e Christina Ricci. Le situazioni, poi, sono talmente stupide che scavalcano il limite del concesso per un film, anche se per bambini, soprattutto se porta la firma dei fratelli Wachowski (i siparietti tra Spritle e la scimmia sono a dir poco imbarazzanti e la gag tra Speed e Trixie che fino alla fine non riescono mai a baciarsi è una delle più vecchie, trite e non divertenti che possano esistere).
Inoltre: i flashback e i flashforward si affastellano confusamente durante tutto il film, rendendo difficile la comprensione della vicenda; i combattimenti sembrano la brutta copia di quelli dei film di Bud Spencer e Terence Hill; il recap delle frasi clou del film che precede la vittoria di Speed è inutile e penoso; le transizioni con i profili delle persone, benché presenti già nell'anime originale, sono semplicemente brutti e gestiti male.
Insomma, un film sbagliato da ogni punto di vista, dozzinale, infantile e che davvero contrasta con il calibro delle persone coinvolte nel progetto.

domenica 23 giugno 2013

The Truman Show (1998)


The Truman Show
The Truman Show, USA, 1998, colore, 103' (1h 43')
Regia di Peter Weir

Rivisto ieri su Rai 4.

Truman Burbank (Jim Carrey) è un uomo che, da quando è nato, è sotto il diretto controllo delle telecamere, spiato in ogni secondo della sua finta vita. Infatti tutte le persone con cui Truman ha a che fare, genitori compresi, sono attori e ogni cosa si svolge in un enorme set, tutto all'insaputa dello stesso Truman che crede sia tutto reale. Nella finzione Truman abita a Seahaven, piccolo paesino situato su di un'isola. Per evitare che, crescendo, Truman avesse voglia di lasciare la città, i produttori dello show gli hanno creato un trauma quando era bambino, facendo morire il padre davanti ai suoi occhi durante una gita in barca nel bel mezzo di una tempesta.
Pian pianino, però, piccole cose fanno insinuare dei dubbi nella mente di Truman: un faretto come quelli usati per le luci in teatro che si schianta in mezzo alla strada; pioggia che cade solo su di lui e lo segue (stile "nuvola di Fantozzi"); il padre che ricompare in città come barbone e che viene portato via a forza da due persone (evidentemente membri della sicurezza del set).
Truman, spinto da questi avvenimenti, ripensa alla sua vita e ad alcuni momenti salienti, come l'incontro con Laureen (Natascha McElhone), ragazza di cui Truman si era innamorato prima di sposare sua moglie e che ha provato a rivelargli la verità sul reality show. In questo modo si spiega anche l'ossessione che Truman ha per le Isole Fiji: quando l'attore che impersonava il padre di Laureen (la quale, nel frattempo, scopriamo chiamarsi in realtà Sylvia) portò via la "figlia" per impedirle di spifferare tutto, disse a Truman che è lì che si sarebbero trasferiti.
Gli "incidenti" a Truman continuano: con l'autoradio, intercetta il walkie-talkie di un tecnico che descrive nel dettaglio i suoi movimenti; vede le quinte di una parte di set lasciato aperto; scopre che al suo matrimonio, al momento del bacio, la moglie ha incrociato le dita - tipico gesto americano di quando qualcuno non ha intenzione di onorare la promessa che sta facendo. Truman è sempre più deciso ad andarsene da Seahaven, ma non ce la fa né in aereo (tutti i voli sono al completo), né via autobus (il conducente fa fondere il motore).
Truman diventa sempre più paranoico quando scopre che i passanti che camminano davanti a casa sua sono sempre gli stessi e fanno semplicemente un anello intorno all'isolato. Deciso sempre più a fuggire, scappa in auto con la moglie Meryl (Laura Linney). Superato un ingorgo costruito ad arte, i due arrivano al ponte che collega l'isola alla terra ferma. Per passarlo, Truman chiude gli occhi e preme l'acceleratore, costringendo Meryl a manovrare il volante per non finire in acqua. Truman passa oltre un incendio (anch'esso costruito ad arte) ma viene fermato da un posto di blocco istituito a causa di alcune radiazioni nucleari (ancora una volta un trucco degli sceneggiatori). Quando, però, uno dei poliziotti lo saluta chiamandolo per nome, Truman comincia a fuggire a piedi attraverso il bosco, ma viene ben presto fermato.
Ricondotti a casa, Meryl cerca di tornare alla normalità ma, all'ennesima sfacciata pubblicità che la donna fa alla telecamera, Truman dà di matto e la minaccia con un arnese da cucina. Meryl invoca l'aiuto di qualcuno - e questo non fa altro che acuire i sospetti di Truman. Gli sceneggiatori fanno intervenire Marlon (Noah Emmerich), il migliore amico di Truman. Marlon salva la situazione, ma Meryl ha un attacco di nervi durante il quale urla di essere una professionista e di non poter più gestire la situazione, così lascia il reality. Gli sceneggiatori, per cercare di calmare Truman, fanno ritornare in vita il padre di Truman, cucendogli addosso una storia strappalacrime in cui, salvatosi dalla tempesta, ha perso la memoria e fino a quel momento non poteva tornare a Seahaven.
Tutto sembra essere stato sistemato finché un giorno Truman fugge, nascondendosi dalle telecamere. Christof (Ed Harris), il regista e creatore dell'intero show, concorda col direttore della sala di controllo (Paul Giamatti) di sospendere le trasmissioni per la prima volta in trent'anni di messa in onda continua, 24 ore su 24, e di mandare tutte le comparse a cercare Truman. Truman è su una barca a vela, in mezzo al mare: ha vinto la sua paura dell'acqua e cerca di scappare dall'isola per arrivare, in qualche modo, alle Fiji e trovare Lauren/Sylvia di cui si è addirittura fatto un ritratto tagliando parti di volti di donna dalle riviste femminili.
Christof sa che l'unico modo per fermarlo è di far scoppiare una tempesta in mezzo al mare - anche a scapito della vita di Truman, dal momento che non c'è una squadra di soccorso in zona. Truman, nonostante tutto resiste stoicamente (addirittura sfida gli autori a fare di meglio), così Christof decide di spegnere tutto e affrontare l'uomo. Truman, intanto, ha sfondato con la punta della barca a vela una delle pareti dello studio e, camminando lungo il muro, trova una scaletta e un'uscita di sicurezza, ben mimetizzate con il fondale.
Truman fa per uscire dallo studio, per la prima volta nella sua vita, ma Christof cerca di fermarlo dicendogli che quello che c'è dentro il set è vero tanto quanto quello che c'è fuori, che la sua vita è il reality e che, se attraversa quella porta, quello che ci troverà non sarà migliore di quello che ha avuto finora. Truman invece saluta tutti ed esce, per la gioia di Sylvia che si precipita ad incontrarlo nella vita vera (e, ragionevolmente, a passare il resto della vita con lui). Dopo trent'anni, il Truman Show finisce.

Io non vorrei tanto insistere con la rappresentazione e l'esasperazione del Grande Fratello (il programma Tv, non l'entità dell'orwelliano 1984, di cui questo film è sicuramente figlio) perché il film è del 1998 mentre la prima edizione del reality show è del 1999. C'è da dire, comunque, che il film è uno di quei casi più unici che rari in cui il Cinema è precursore dei tempi e vede più lontano di quanto possiamo fare noi, anticipando, seppur in grottesco, quella che è, se non la televisione di oggi, quella potenziale di domani. Faremo mai ad una persona vera quello che Christof fa a Truman? Probabilmente no, come non ideeremo mai un reality show sulla roulette russa come in Life!, ma è la plausibilità di questi format a colpire più ferocemente un certo tipo di società contemporanea.
Il film è solido, scritto bene - anche se certe scelte dei nomi (Truman - da "true man", uomo vero - o Christof - chiaro riferimento al divino) scoprono un po' troppo il fianco al didascalismo - e interpretato da un ottimo cast di attori capeggiati da Jim Carrey. A differenza di buona parte della sua carriera, qui Carrey riesce a interpretare la parte in modo efficace ma posato, rendendo bene i momenti di follia, quando ci sono, ma evitando di gigioneggiare troppo. Una bella prova d'attore per un interprete che forse meriterebbe copioni più alla sua altezza e che non sfruttino solo la sua caratteristica mimica facciale.
Il film, va detto, non è perfetto, ma ha una componente agrodolce, anche nel pur idilliaco finale, che lo rende godibile a ogni visione e che fa di lui un classico del Cinema americano.

Coraline e la porta magica (2009)


Coraline e la porta magica
Coraline, USA, 2009, colore, 100' (1h 40')
Regia di Henry Selick

Visto ieri su Italia 1.

Coraline è una bambina che si è appena trasferita con i suoi genitori, due scrittori eccessivamente impegnati col lavoro per dare alla figlia l'attenzione che lei vorrebbe. Un giorno Coraline incontra Wybie, un ragazzino appassionato di tecnologia e nipote della proprietaria della casa, che le regala una bambola estremamente somigliante e con due bottoni al posto degli occhi. Esplorando la casa, Coraline trova una piccola porta che, una volta aperta, si scoprirà essere murata. La notte stessa, seguendo un gerbillo, Coraline scopre che la porticina nasconde un passaggio. La ragazzina ci si infila e trova dall'altra parte una casa identica alla sua dove abitano due genitori uguali ai suoi che si differenziano sia perché hanno bottoni al posto degli occhi, sia perché sono gentili e disponibili con Coraline: cucinano ciò che le piace, suonano per lei, le permettono di giocare e le danno attenzione - anche se quest'ultima appare vagamente inquietante. Il mattino dopo Coraline si risveglia nel suo letto. Quando racconta quello che le è successo, sua madre e suo padre non le credono.
Coraline intanto fa amicizia con il signor Bobinski, un saltimbanco di origine russa che alleva topi con del formaggio che gli arriva via posta. Tramite Bobinski i topi avvertono Coraline di non passare più attraverso la porticina, ma lei non ascolterà il consiglio. Successivamente Coraline va a far visita a due anziane signore, April e Miriam, ex attrici fissate con i cani e con la lettura delle foglie di tè. Più tardi Coraline incontra Wybie che le rivela di non essere mai entrato nella casa attualmente abitata dalla ragazzina. La nonna di Wybie, infatti, aveva una sorella che sparì quando era piccola e da quel momento ritiene che la casa sia stregata e quindi ha impedito al nipote anche solo di entrarci.
La sera Coraline mette del formaggio per attirare i topi e passare attraverso la porticina. Nell'"altra casa" cena, guarda il giardino sistemato a formare il suo volto e trova un Wybie muto e simpatico e un signor Bobinski ilare che appronta uno spettacolo circense con i topi per i due ragazzini. Al risveglio Coraline è di nuovo nella sua casa vera.
Coraline scopre di poter andare "dall'altra parte" anche di giorno e lì parla col gatto di Wybie, che non solo ha il dono della parola, ma dice anche cose molto profonde. In tanto la versione "oltre la porta" di April e Miriam organizzano uno spettacolo per i loro cani e per Coraline, spettacolo in cui ad un certo punto si tolgono i costumi da vecchie e si rivelano essere giovani e atletiche. Al rientro a casa gli "altri genitori" propongono a Coraline di restare sempre con loro, a patto che la bimba si lasci mettere i bottoni al posto degli occhi.
Coraline va a dormire sperando di svegliarsi nella sua vera casa e invece è ancora "oltre la porta". Allora chiede all'"altro padre" come può tornare a casa, ma questi le dice di non poter parlare per paura della "Grande Madre". Coraline cerca di fuggire, ma scopre che non c'è nulla al di fuori della casa. Coraline decide così di affrontare l'"altra madre" ma viene messa in punizione in una stanza oltre uno specchio. Lì Coraline trova le anime di altri bambini che hanno subito la stessa sorte e che ora sono fantasmi. Questi chiedono a Coraline di recuperare i loro occhi affinché le loro anime possano essere libere. Grazie all'aiuto dell'"altro Wybie" Coraline scappa e torna a casa per scoprire che i suoi genitori sono scomparsi. Con l'aiuto del gatto, Coraline scopre che i suoi genitori sono intrappolati in uno specchio, rapiti dalla Grande Madre.
Coraline decide di tornare "oltre la porta" e affrontare la Grande Madre, ormai rivelatasi con il suo vero aspetto. Il mostro ingoia la chiave che permette a Coraline di tornare a casa, così la ragazzina propone alla Grande Madre un gioco: lei cercherà i suoi genitori e gli occhi dei bimbi morti. Se li troverà, potrà andarsene, altrimenti resterà per sempre nell'"altra casa" e si farà cucire i bottoni al posto degli occhi. Con l'aiuto del gatto e di un oggetto donatole dalle vere April e Miriam, Coraline riesce a recuperare tutti gli occhi dei bambini e, con un trucco, anche i suoi genitori. Così Coraline scappa e rinchiude la Grande Madre per sempre nel suo mondo. Le anime dei bambini vengono liberate, ma un artiglio della Grande Madre, sfuggito dall'"altro mondo", si aggira nel mondo reale e cerca di recuperare la chiave. Coraline, con l'aiuto di Wybie, la butta in un pozzo profondissimo e tutto va a finire bene.

Film di animazione in stop motion in cui la realizzazione è nettamente migliore del risultato complessivo.
Lo stop motion è tecnicamente perfetto e le atmosfere del film sono decisamente inquietanti, tanto che la visione ai bambini della pellicola dovrebbe essere molto ben ponderata e, a seconda delle età, accompagnata dalla presenza dei genitori.
Il problema è che il film parte con un cliché (i genitori di Coraline sono troppo indaffarati da non avere tempo per lei), si snoda tra personaggi secondari che vorrebbero essere divertenti e invece sono noiosi e patetici e termina senza spiegare nulla. Nessuno, infatti, risponde alle domande: chi è la Grande Madre? È un grande ragno? Perché si comporta in quella maniera? Perché hai dei bottoni sugli occhi? È una metafora di qualcosa? Qual è la morale del film? Perché nel pozzo la chiave dovrebbe essere al sicuro visto che il pozzo ha un fondo - lo prova Coraline quando getta il sasso a inizio film? E, soprattutto, se la nonna sa che la casa è stregata, perché diavolo la affitta a una coppia giovane con una bambina?
La tag line del film dice Fai attenzione a quello che desideri. Io trovo il tutto profondamente sbagliato. A inizio film Coraline si trova in una casa nuova in mezzo al nulla, con tutto ancora imballato, con due genitori che lavorano in maniera parossistica, tanto da avere tempo per preparare solo pessimi pasti, con dei vicini al limite dell'assurdo: un coetaneo odioso, un folle che alleva topi con formaggio che riceve per posta (urgh!) e due anziane signore che, per gentilezza, definirò eccentriche. È ovvio che Coraline desideri altro, ed ecco perché si infila nella porta: per fare qualcosa! Rispetto al completo nulla che accade nel mondo reale, è giusto che Coraline sia attratta dal mondo fatato degli "altri genitori". Non è il Paese dei balocchi di Pinocchio, profondamente sbagliato che rappresenta un'alternativa comoda per lo svogliato burattino per mom andare a scuola. È il modo che Coraline ha per fare qualcosa che non sia lo stare sdraiata tutto il giorno a fissare il soffitto. Davvero, non capisco che morale abbia il film - quelle che ho letto in giro per me sono tutte sbagliate - né quale sia il senso del tutto.
Ripeto, un film tecnicamente perfetto che però intrattiene male, non spiegando e lasciando più domande che risposte. Occhio: domande, non spunti di riflessione. Quello che è interessante notare è che si può fare ancora paura e strabiliare visivamente anche con dei pupazzi, ovvero fare Tim Burton senza essere Tim Burton. E questo dimostra che il problema più grosso del Tim Burton degli ultimi anni (Alice in Wonderland, Dark Shadows e Frankenweenie) è Tim Burton stesso.

sabato 22 giugno 2013

I miei più cari amici (1996)


I miei più cari amici
Italia, 1996, colore, 111' (1h 51')
Regia di Alessandro Benvenuti

Visto ieri su Iris.

Sei attori falliti vengono contattati, dopo quindici anni che non si faceva sentire, dall'ex amico e collega Alessio (Alessandro Benvenuti) e invitati alla sua villa. I sei sono: Martha (Athina Cenci), attrice di stampo classico che non trova più teatri disposti ad accogliere i suoi spettacoli; Brick e Brack (Gaspare & Zuzzurro), due comici che, per scrivere gli sketch comici dei loro spettacoli, registrano le conversazioni degli avventori di un bar; Oscar (Vito), coreografo effeminato circondato da una "corte" di collaboratori simili a lui; Loretta (Eva Robin's), ex pornostar; Rossano (Alessandro Gassman), attore di scarse capacità il cui punto di forza è più la bellezza che le doti recitative. Il pretesto per l'invito è di festeggiare il compleanno di Martha. All'inizio tutti e sei rifiutano ma, successivamente accettano, Martha per poter rinfacciare ad Alessio quello che ha fatto in passato, Brick e Brack per sfuggire a dei killer (interpretati da Roberto Ciufoli e Tiziana Foschi) che hanno involontariamente confessato un omicidio al microfono del registratore dei due, Oscar per svagarsi dopo che il suo amante lo ha lasciato, Loretta perché cacciata di casa dalla moglie del suo defunto amante e Rossano perché lo spettacolo per cui era stato scelto è stato cancellato.
Nonostante Alessio faccia il simpatico, l'aria nella villa è tesa e, dopo la prima cena, capiamo il perché. Martha e gli altri cinque, infatti, rinfacciano ad Alessio il fatto di aver usato la loro amicizia e sfruttato le loro debolezze per scrivere una commedia di successo, intitolata I miei più cari amici, in cui Alessio li ha sputtanati. Ed ecco perché da allora hanno avuto difficoltà a farsi valere nel mondo dello spettacolo. Alessio chiede scusa ai suoi amici e i rapporti tra i sette si distendono.
Nel frattempo le camere di Brick e Brack vengono perquisite e la cassetta su cui avevano registrato la conversazione dei criminali viene rubata. Rossano ha l'occasione di fare sesso con due giovani e procaci cameriere ma non ce la fa; lui sostiene sia perché da quando è arrivato alla villa non ha avuto ancora la possibilità di specchiarsi, dal momento che tutti gli specchi della casa sono stati tolti perché coperti da strane macchie. Una delle due ragazze, per vendicarsi, nasconde un paio di mutandine sotto il cuscino di Rossano e questo se la prende con Loretta. Ne nasce una lite violentissima che Alessio riesce a placare rivelando il vero motivo per cui i sei sono stati convocati: rimettere in scena I miei più cari amici, questa volta con gli interpreti originali. Tutti accettano e le prove vanno avanti, seppur tra alti e bassi. Intanto piccole cose accadono nelle stanze dei sei attori: scacchi che si muovono durante la notte, camere che si rassettano da sole, strane apparizioni.
Durante una prova, Oscar si rifiuta di interpretare una scena troppo personale e Martha si rende conto che loro sei non potranno mai recitare assieme. Ecco perché Alessio non li aveva scelti, quindici anni prima, per interpretare la prima edizione della commedia. Martha fa per andarsene ma Alessio la ferma e rivela al gruppo il vero motivo per cui li ha convocati alla villa: lui sta morendo e voleva averli vicino per un'ultima volta.
In realtà la verità è un'altra. Dietro a tutto c'è Nemo (Umberto Smaila), produttore televisivo ed ex amico dei sette protagonisti, che sta realizzando un gigantesco reality show. La villa è disseminata di telecamere che riprendono gli abitanti in ogni secondo e l'unico a sapere della loro presenza è Alessio. Nemo è molto felice di come sta procedendo il programma e, anzi, vorrebbe esasperare ancora di più le tensioni nel gruppo, al contrario dell'inviato della rete televisiva Tommasi (Gianmarco Tognazzi) che è scettico riguardo l'intero progetto.
Una sera Loretta va in camera di Alessio e si spoglia, concedendosi a lui. Alessio, non volendo farlo davanti alle telecamere, la riveste e la manda via. Alessio ha, così, una crisi di coscienza e sparisce durante la notte per poi riapparire il giorno dopo raccontando una storia straziante sui suoi figli che abitano in Svizzera. Il giorno dopo i sette escono per un'escursione in bici durante la quale Alessio, fingendo una caduta, stacca microfoni e telecamere e racconta agli amici la verità. Così i sette si coalizzano per sabotare il programma. Prima fingono che l'audio salti nel momento in cui stanno rivelando di essere stati complici in un omicidio, poi decidono di intrufolarsi nottetempo in sala regia. Oscar, però, in cambio della promessa di far fallire il nuovo spettacolo del suo ex fidanzato, avverte Nemo il quale provvede a spostare tutto. In preda all'ira, Martha uccide Oscar sotto l'occhio vigile delle telecamere. Tommasi fa chiudere immediatamente il programma ma, non appena si allontana, i sette rivelano che era tutto un trucco. Per lo choc - e grazie anche al suo stile di vita poco sano - a Nemo viene un ictus e i sette hanno la loro vendetta. Durante la festa che segue, mentre tutti si divertono, Alessio si eclissa, lasciando Loretta disperata perché davvero ci teneva a far l'amore con lui.
Alcuni mesi dopo, Alessio scrive ai sei amici i quali stanno portando in scena la commedia, con la regia della stessa Martha, riscuotendo un successo entusiasmante.

Ottima commedia che riesce, in fase di scrittura, a sfruttare le potenzialità di un gran cast. I personaggi sono tutti ben caratterizzati e hanno davvero uguale peso nel dipanarsi delle vicende. Nessuno dei protagonisti primeggia davvero sugli altri e nessuno degli attori cerca di rubare la scena agli altri, segno sia della loro professionalità sia che il copione è stato scritto e seguito in modo rigoroso. L'unico appunto si potrebbe fare al personaggio di Alessandro Gassman: poco interessante, troppo vago e, tutto sommato, sacrificabile.
Il film riesce ad alternare piacevolmente momenti comici a momenti molto seri (la scena in cui Vito si rifiuta di recitare un passaggio troppo personale, ad esempio) creando un prodotto di ottima fattura e dimostrando che i sette attori protagonisti riescono a recitare bene e sembrare credibili anche nei toni drammatici e non solo in quelli comici, come fino ad allora ci avevano abituato.
La regia di Benvenuti è rigorosa, seria e pulita ma in certi punti sa osare senza lasciare prendersi la mano.
In sostanza, un ottima prova cinematografica, costruita bene e realizzata anche meglio. Un film dolce-amaro che merita sicuramente almeno una visione.

giovedì 20 giugno 2013

L'esercito delle 12 scimmie (1995)


L'esercito delle 12 scimmie
Twelve Monkeys, USA, 1995, colore, 129' (2h 09')
Regia di Terry Gilliam

Visto ieri su Iris.

In un futuro in cui, a causa di un misterioso virus, la poca gente rimasta è costretta a vivere sotto terra, James Cole (Bruce Willis), un detenuto all'ergastolo, viene "volontarizzato" e mandato nel passato per raccogliere informazioni e capire da dove proviene il virus e come si è sviluppato. Secondo gli scienziati, l'origine di tutto è imputabile ad un gruppo ecologista chiamato "Esercito delle 12 scimmie" che avrebbe agito per liberare il Mondo dall'uomo, che loro considerano il cancro di questo pianeta, e che ha rivendicato il gesto scrivendo sui muri della città «We did it». A causa di un errore, James finisce nel 1990 - anziché nel 1996 - e viene internato in un manicomio. Là James incontra Jeffrey Goines (Brad Pitt), un altro matto, e la dottoressa Kathryn Railly (Madeleine Stowe) la quale è convinta di aver già conosciuto James. Una notte, mentre è sotto psicofarmaci, James rivela a Jeffrey tutta la storia e questi, pur non credendo ad una sola parola, si dimostra interessato all'idea di liberare la Terra dalla presenza dell'uomo.
Un giorno James tenta di fuggire ma viene condotto in isolamento e lì scompare perché riportato nel futuro. Gli scienziati lo rimandano nel passato ma, sempre per sbaglio, durante la prima Guerra Mondiale. Lì James fa in tempo a scorgere José (Jon Seda), suo ex-compagno di cella e viaggiatore del tempo come lui, e a prendersi un proiettile nella gamba finché, finalmente, ricompare nel 1996.
James rapisce la dottoressa Railly e la trascina fino a Philadelphia. Lui le racconta tutta la storia ma lei cerca di convincerlo che è la malattia mentale a farlo sragionare. Durante una sosta in un motel, James si rende conto che la dottoressa è la protagonista di un suo sogno ricorrente ambientato in un aeroporto. Arrivati a Philadelphia, un misterioso barbone avverte James che ha una microspia inserita in uno dei denti (la stessa voce del barbone, James l'aveva già sentita la prima volta in cui è tornato dal passato). James, sempre più in paranoia, trova il simbolo dell'Esercito delle 12 scimmie e scopre che dietro a tutto c'è Jeffrey, che nel frattempo è stato dimesso dal manicomio e che non aveva mentito quando diceva di essere figlio di una persona importante. Suo padre, infatti, è un virologo di fama mondiale. Jeffrey rivela a James che l'idea del progetto gliel'ha data proprio lui, sei anni prima in manicomio. James e la dottoressa Railly iniziano ad innamorarsi ma la donna insiste col dire che James ha dei disturbi e che dovrebbe costituirsi alla Polizia.
James viene nuovamente richiamato nel futuro. Intanto la dottoressa Railly scopre non solo che James sapeva come sarebbe andato a finire un fatto di cronaca che in quei giorni stava tenendo incollati tutti gli americani al televisore (un bimbo incastrato in un pozzo che, si seppe poi, era nascosto in un capanno là vicino) ma anche che lo stesso James appare in una fotografia originale della prima Guerra Mondiale e che il proiettile estrattogli dalla gamba proveniva da quell'epoca. A questo punto la dottoressa inizia a pensare che, per quanto strano, James possa dire il vero. James, di contro, riceve la grazia dagli scienziati ma si è persuaso che il futuro sia solo frutto della sua fantasia, così torna nel 1996 per costituirsi alla Polizia. Prima che possa farlo, la dottoressa Railly lo intercetta e lo fa desistere dicendo di credere alla sua versione.
Dopo un'inverosimile e non divertente scena al motel in cui la dottoressa Railly viene scambiata per una prostituta e James per il suo cliente, i due riescono a fuggire e a cambiare identità (non prima, però, che James si sia strappato i denti per paura dei microchip). Il piano di Jeffrey si rivela essere, in realtà, praticamente innocuo: l'Esercito delle 12 scimmie ha aperto tutte le gabbie dello zoo e lasciato che gli animali uscissero, rivendicando poi il gesto con quella scritta sul muro. All'aeroporto ricompare José che ordina a James di impossessarsi del virus. In quel momento tutto diventa chiaro: il colpevole è l'assistente del padre di Jeffrey. James tenta di fermarlo ma viene ucciso da una delle guardie dell'aeroporto, il tutto davanti agli occhi di un James bambino. Era questo il sogno ricorrente: aveva visto sé stesso adulto morire nel tentativo di salvare l'umanità. L'assistente del padre di Jeffrey fugge (e dà inizio all'epidemia) e il film si chiude con un primo piano degli occhi del piccolo James.

Film apparentemente interessante ma che non sta in piedi a livello di sceneggiatura. Citando a caso: James è un ergastolano scelto per viaggiare nel tempo (quindi si suppone sia un tipo sveglio) ma si fa arrestare subito, non capisce che dire nel 1990 che il 1996 è il passato è il modo migliore per farsi internare e non sa che deve solo far finta di prendere le droghe in manicomio; quando James torna casa, gli scienziati non hanno idea di come funzionino le cose negli anni '90, eppure tutti loro hanno vissuto quegli anni (una di loro è persino seduta accanto al terrorista quando questi prende l'aereo); non è chiaro il senso della voce nella testa di James, visto che appare due volte e poi mai più; non si capisce perché José, anziché fermare lui stesso l'attentatore e prendergli il virus, perda tempo a cercare James, convincerlo e dargli la pistola. E poi il buco di trama più grosso (e più classico): gli scienziati dicono a James che il passato non si può cambiare, ma lui lo cambia perché dà a Jeffrey l'idea dell'Esercito delle 12 scimmie, perché dà modo alla dottoressa Railly di parlare con il padre di Jeffrey, perché dà modo alla stessa dottoressa di fare la telefonata che poi gli scienziati nel futuro riassembleranno.
Poi, dal punto di vista tecnico, la scena della prima Guerra Mondiale è chiaramente girata in studio mentre la scena in macchina in cui James ascolta la radio è semplicemente patetica. Certo: sono solo due scene, ma aggiunte alla pessima sceneggiatura contribuiscono a fare del film un prodotto molto mediocre.
Gli altri problemi del film, oltre a quelli già citati, sono l'eccessiva lunghezza e la caratterizzazione dei personaggi. Voglio dire: James appare paranoico senza motivo e non capisce che questo gli è sempre controproducente, in pratica è disturbato; Jeffrey è psicotico e la dottoressa Railly si agita eccessivamente. È vero che gli interpreti sono eccezionali nel mettere in scena queste emozioni, ma tutta questa follia alla lunga stufa, tanto più che ognuno dei tre mostra queste caratteristiche dal primo momento in cui appare sullo schermo fino alla fine del film, e questo è francamente insostenibile.
Infine, il messaggio del film. Se il punto è la salvezza dell'umanità, il film è una pietra tombale perché ci dice che non c'è niente che possiamo fare di fronte a un pazzo con un virus letale. Se, invece, il messaggio è che noi, assieme a James, non sappiamo distinguere cos'è vero e cosa è falso (stile Matrix ante litteram), è reso male perché noi sappiamo che il futuro è reale e non è un'invenzione di James. Infatti non solo James sa come va a finire la storia del bimbo nel pozzo, ma sa ricostruire il messaggio lasciato dalla dottoressa in segreteria; James, imbottito di psicofarmaci sparisce da una stanza chiusa; James appare durante la prima Guerra Mondiale e si becca un proiettile di quell'epoca; noi vediamo la scienziata parlare con l'attentatore sull'aereo. Quindi in nessun momento del film noi abbiamo il dubbio che il futuro non sia reale.
In sostanza un film che non intrattiene - per la lunghezza e per l'inconsistenza della trama - e senza un messaggio forte alle spalle. Spiace per Terry Gilliam, ma qui non c'è quasi nulla di buono.

Tutto in una notte (1985)


Tutto in una notte
Into the Night, USA, 1985, colore, 115' (1h 55')
Regia di John Landis

Visto ieri su Rai Movie.

Ed (Jeff Goldblum) è un ingegnere aerospaziale che soffre di insonnia, è tradito dalla moglie Ellen (Stacey Pickren) e ha un lavoro di scarsa soddisfazione. Il suo collega Herb (Dan Aykroyd), più per celia che per altro, gli consiglia di sfruttare la sua insonnia per andare a Las Vegas di notte a spassarsela. Una notte, non riuscendo a dormire, Ed va all'aeroporto ma, appena arrivato nel parcheggio, si pente e fa per tornare a casa quando Diana (Michelle Pfeiffer), una bellissima donna inseguita da quattro iraniani (tra cui si può riconoscere lo stesso John Landis) che le hanno appena ucciso il compagno sotto gli occhi, gli chiede aiuto. I due riescono a sfuggire agli iraniani ma la donna si rifiuta categoricamente di chiamare la Polizia. Diana si fa accompagnare a casa del fratello Charlie (Bruce McGill), un fanatico di Elvis Presley che, invece di aiutarla, le rinfaccia di essere partita per l'Europa senza dire niente a nessuno e la caccia di casa. Intanto la macchina di Ed viene portata via dalla Polizia perché in divieto di sosta. Gli iraniani sono ancora sulle tracce di Diana così Ed e la ragazza sono costretti a rubare la macchina di Charlie.
Ed, stufo della situazione, chiede spiegazioni a Diana. Questi gli rivela che, di ritorno dall'Europa, ha portato con sé sei smeraldi che erano incastonati nello scettro di un re persiano. Diana li ha contrabbandati per conto di Hasi (Ali Madani), l'uomo ucciso all'aeroporto, e ora i quattro iraniani li rivogliono. Ed ecco perché Diana ha paura di andare alla Polizia.
Ed accompagna Diana a Hollywood dove la donna ha un'amica attrice, Christie (Kathryn Harrold), impegnata a girare un film. Diana infila gli smeraldi nella tasca segreta di un giubbotto, lo affida all'amica affinché lo custodisca e se ne va.
Dopo una serie di peripezie lungo tutta la notte, gli iraniani arrivano a Christie e la uccidono, ma non trovano le pietre. Ed e Diana vengono intercettati da un certo Melville (Roger Vadim), criminale francese che li rapisce con lo scopo di farsi consegnare gli smeraldi. Diana recupera le pietre e, con un trucco, riesce a liberarsi di Melville.
I due protagonisti riescono, infine, ad arrivare a Jack (Richard Farnsworth), anziano, ricchissimo e molto malato capo della zona, che, a causa della gelosa moglie Joan (Vera Miles), Diana non era riuscita a contattare prima. Jack rivela che dietro a tutta la faccenda c'è Shaheen (Irene Papas), affascinante straniera che ha bisogno di contanti per costruire un centro commerciale in città, e suggerisce di trattare direttamente con lei. Ed e Diana scambiano le pietre con Shaheen in cambio di 25.000 dollari. I due tentano di fuggire in Messico ma all'aeroporto trovano ad attenderli i quattro iraniani, Melville e la Polizia Federale. Ne segue una sparatoria che porta alla morte di tutti i cattivi e all'arresto di Ed e Diana. I due vengono portati in un albergo e informati che Jack ha chiarito la situazione e ha lasciato loro 75.000 dollari.
In albergo finalmente Ed riesce ad addormentarsi. Il mattino dopo Diana è sparita con tutti i soldi, tranne le poche mazzette che la sera prima aveva lasciato a Ed. Ed fa per tornare a casa quando Diana ricompare e invita l'uomo a prendere l'aereo con lei.

John Landis gira Tutto in una notte dopo i successi di Ridere per ridere, Animal House, The Blues Brothers e Una poltrona per due, per dirne alcuni. E, purtroppo, nel confronto con questi altri film, Tutto in una notte è destinato a perdere. Al di là dello sciocco titolo italiano (non succede tutto "in una notte" ma in due), il film tenta di essere un sapiente misto di avventura e comicità ma ci riesce molto parzialmente. La parte avventurosa inizia molto bene, con l'uccisione di Hasi e la fuga rocambolesca dei due protagonisti, ma alla lunga stufa, complici l'affastellarsi di personaggi dimenticabili di cui non è chiara l'utilità (come quello interpretato da David Bowie, ad esempio) e il fatto che devono esserci degli errori di montaggio (ad esempio, Ed e Diana parlano di Melville prima che questo si presenti ai due per la prima volta). La parte più prettamente comica, invece, risulta frammentata e affidata sostanzialmente a due persone: a Goldblum, con la sua perfetta faccia stranita, sia per la sopresa che per la lunga insonnia, e i suoi commenti caustici a quanto gli sta succedendo intorno, e a John Landis, che non parla mai ma interpreta un malvivente iraniano che è da Oscar per lo slapstick (ispirando, probabilmente, il personaggio di Zittino Bob interpretato dal regista Kevin Smith quasi dieci anni dopo prima in Clerks e poi in numerosi film che seguiranno). I comprimari che dovrebbero essere divertenti - i barboni che avvertono Goldblum che la sua auto verrà rimossa, piuttosto che l'uomo con il cane in ascensore - lo sono molto poco e, ripeto, fanno molto siparietto a sé stante e si amalgamano malamente con la storia. Dan Aykroyd è assolutamente sprecato e tutto sembra essere sotto tono.
Quello che fa sorridere in questo film è la mole impressionante di comparsate di registi, autori e sceneggiatori della Hollywood di quegli anni. Per l'elenco completo rimando alla pagina di Wikipedia. Il gioco, va detto, è divertente, ma resta sempre fine a sé stesso: non aggiunge niente al film e lo spettatore medio difficilmente si accorgerà della cosa. È una simpatica strizzatina d'occhio ai cinefili, ma niente di più.
In definitiva, un film molto minore di Landis, capace di ben altro, la cui visione mi sento di consigliare solo ai veri fan o ai cinefili muniti di guida per riconoscere i diversi camei disseminati nella pellicola.

mercoledì 19 giugno 2013

L'esorciccio (1975)


L'esorciccio
Italia, 1975, colore, 95' (1h 35')
Regia di Ciccio Ingrassia

Visto ieri su Italia 1.

In Iran viene trovato un ciondolo che porta con sé una maledizione: un diavolo (Salvatore Biondo) si impossessa del corpo di chiunque indossi l'oggetto. Il ciondolo arriva casualmente nelle mani del figlio di 10 anni del Sindaco (Lino Banfi) di un paesino del Lazio. Il ragazzino prima abbatte un albero calciandoci contro una palla, poi violenta una giovane contadina, predice la morte di un amico del padre e tenta di violentare la cameriera. Inizialmente Pasqualino, il Sindaco, pensa che sia tutta una macchinazione di Turi Randazzo (Tano Cimarosa), il suo rivale alle elezioni comunali, ma poi si convince che c'è qualcosa di strano e convoca l'Esorciccio (Ciccio Ingrassia). Questi riesce a far cadere al ragazzino il ciondolo il quale viene raccolto dalla figlia di Pasqualino, Barbara (Barbara Nascimbene). Intanto attorno alla casa di Pasqualino si aggira il Tenente Sheridan (Ubaldo Lay) che cerca di capire cosa stia accadendo da quelle parti, ma senza riuscirci. Barbara, sotto l'influsso del ciondolo, si presenta in veste sexy alla festa di fidanzamento con il nipote di un monsignore, creando così imbarazzo e scandalo. L'Esorciccio interviene nuovamente (ricreando la scena più famosa de L'esorcista, quella del letto) e l'amuleto passa nelle mani di Annunziata (Didi Perego), la moglie di Pasqualino, la quale si ritrova con una fluente barba impossibile da tagliare. Annunziata e l'Esorciccio si recano da Antonio (Dante Cleri), il barbiere del paese, e la donna, per non destare sospetti, si traveste da frate. Turi Randazzo, che si trova a passare di lì per caso, fiuta qualcosa di losco e scende in piazza per affrontare il Sindaco. Intanto il ciondolo finisce nelle mani di Antonio che, mentendo, sbugiarda Turi davanti a tutti e lo fa arrestare, permettendo così la rielezione di Pasqualino.
Quando Pasqualino inaugura una sedia da barbiere nel negozio di Antonio, questi gli dona il ciondolo. Così, durante un discorso pubblico, Pasqualino dà di matto pisciando in pubblico, ruotando la testa di 180 gradi e mettendosi a cantare un pezzo rock (Sciamuninn Rock). Intanto che Pasqualino canta, irrompe Turi che vuole uccidere Antonio per vendicarsi dell'arresto. Nel parapiglia che si crea, il ciondolo passa di mano in mano finché arriva in quelle dell'Esorciccio che lo riconosce e lo ingoia. Il finale vede l'Esorciccio sparire di fronte a Pasqualino e trasformarsi in diavolo.

Pur essendo un film di genere, questa è una parodia estremamente divertente, sia per i puntuali e molteplici riferimenti all'opera originale, sia per il nonsense che permea il tutto, sia perché spesso sono gli stessi personaggi a suggerire di essere consci di essere all'interno di una parodia (su tutte, quando il figlio del Sindaco predice la morte di uno degli amici del padre, questo gli risponde: «Oh, non è che anche tu adesso ti metti a pisciare per terra?»). Ingrassia è favoloso e Banfi è in stato di grazia: bastano davvero loro due per tenere in piedi tutto il film.
La regia, va detto, è molto ingenua, specialmente in certi punti – anche se è nota la penuria di mezzi con cui è stato girato il film. Ingrassia se la cava, ma sotto una mano esperta il film probabilmente avrebbe reso ancora di più. Forse la sceneggiatura andava un po' rivista per snellirla qua e là, per ripensare il ruolo di Ubaldo Lay (strepitoso cameo, ma completamente inutile ai fini della trama) e per limarla ancora un po'.
In definitiva un buon film per fare qualche risata di pancia, consigliato a chi piace il genere.

È già ieri (2004)


È già ieri
Italia/Spagna/UK, 2004, colore, 99' (1h 39')
Regia di Giulio Manfredonia

Visto ieri su Rai Movie.

Filippo (Antonio Albanese) è un naturalista televisivo estremamente scorbutico e maleducato che viene mandato su un'isoletta delle Canarie per fare un servizio su una migrazione anomala delle cicogne. Ad accompagnarlo c'è il timido operatore Enrico (Fabio De Luigi). Tra il carattere di Filippo e una serie demenziale di contrattempi, il soggiorno sull'isola è un vero inferno tanto che, appena realizzato il servizio, Filippo vorrebbe andarsene ma, a causa di una burrasca, è costretto a rimanere. Da quel momento iniziano una serie di giorni tutti identici in cui ogni persona sull'isola ripete le stesse azioni e gli stessi dialoghi e solo Filippo è conscio di quello che sta accadendo.
Inizialmente perplesso, in breve Filippo comincia ad approfittare della situazione e, nel corso dei vari giorni identici: telefona agli amici rivelando cosa pensa davvero di loro, si porta a letto tutte le donne dell'isola (e anche qualche uomo...), spende un sacco di soldi per comprare all'asta un orologio da tavolo che però distruggerà subito dopo al fine di usare il pendolo per colpire una seccatrice e farla cadere dalle scale, si ubriaca fino a finire picchiato in prigione. Dopo aver fatto tutte queste cose, prova a conquistare Rita (Goya Toledo), la bella naturalista dell'isola. Quando non ce la fa, nonostante il ripetere le giornate gli consenta di aggiustare quello che ha sbagliato il giorno prima, comincia a spiarla e la sorprende a dire a suo figlio di non comportarsi egoisticamente «come l'italiano pelato». Filippo allora comincia a comportarsi bene con tutti, ma anche questa soluzione non sortisce effetto. Filippo così decide di prendere un mitra e fare strage delle cicogne, ovvero degli animali che lui reputa essere la causa del continuo ripetersi delle giornate, e poi si suicida. Anche questo atto non sortisce alcun effetto e i giorni continuano a ripetersi uguali finché Filippo non si affeziona ad un anziano abitante dell'isola (che, nonostante le cure, morirà di vecchiaia prima della mezzanotte), rivela a Rita ciò che sta accadendo e, inopinatamente, è "il giorno dopo". Filippo si fidanza con Rita e anche Enrico riesce a conquistare Marta (Esther Ortega), una ragazza di cui si era invaghito ma a cui non era riuscito a dichiararsi.

Inutile remake del meraviglioso Ricomincio da capo. Albanese non è Bill Murray e si vede, per quanto si sforzi. Di Goya Toledo non ne parliamo, ché il confronto con Andie MacDowell sarebbe impietoso. De Luigi è bravo ma sprecato per quella parte.
Il grosso problema è che l'originale aveva una vena più ironica e malinconica, vena che questo film francamente si sogna. La trama è inutilmente volta, per tre quarti di film, più sul naturalistico salvo poi dimenticarsene nel finale (da un certo punto in poi le cicogne spariscono completamente) e la fine arriva all'improvviso senza alcun motivo valido (nell'originale aveva perfettamente senso e seguiva logicamente dalle azioni precedenti. Qui no). Le scene più divertenti del film sono calchi dall'originale, anche se spesso sono poste in punti diversi della trama, e questo fatto le rende molto meno valide proprio perché nell'originale avevano un senso collocate in quella posizione, mentre qui vengono neutralizzate stravolgendole.
In definitiva, un incomprensibile spreco di tempo e di soldi per un remake, di cui francamente avremmo fatto a meno, di un film perfetto.

lunedì 17 giugno 2013

Euclide era un bugiardo (2009)

Euclide era un bugiardo
Italia, 2009, colore, 93' (1h 33')
Regia di Viviana Di Russo

Visto ieri su Rai 3.

Mila (Sarah Calogero) lavora come interprete nell'agenzia gestita dalla vacua Marina (Gea Lionello) ed è una pittrice a tempo perso. Leonardo (Giorgio Lupano) è un ingegnere navale di successo. I due si conoscono per caso perché, fermi a un semaforo, si scoprono intenti a cantare la stessa canzone (Un amore da favola di Giorgia). Dà lì scatta un gioco tra i due che, dribblando numerosi problemi e incomprensioni – tra cui la paventata chiusura dell'agenzia per cui Mila lavora quando Marina scopre che il marito (Renzo Arbore) la tradisce con la segretaria di Leonardo – li porterà ad innamorarsi l'uno dell'altro fino al più classico dei lieti fini.

Il film è decisamente mediocre e difetta parecchio sia nella sceneggiatura che nella recitazione. Nella pellicola si alternano momenti tutto sommato decenti a sequenze davvero imbarazzanti, sotto tutti i punti di vista – i dialoghi sono forzati e degni di un romanzo Harmony, la recitazione poco spontanea e la regia approssimativa. In particolare, riguardo quest'ultimo punto, la prima parte del film si avvale di "mini-flashback" – in cui si torna indietro nel tempo di non più di 5 minuti – i quali non aiutano affatto la narrazione ma la confondono ancora di più.
Le situazioni proposte sono puerili e scontate – per fare qualche esempio: i due che si incontrano per caso ma che finiscono per ritrovarsi alla conferenza, l'amica che fa casino con i quadri a causa dei trasportatori "bonazzi" (casino che poi sarà inutile ai fini della trama visto che Mila, a parte un piccolo scatto d'ira iniziale, non avrà alcun problema ad allestire la visita e riuscirà a stupire ugualmente il critico d'arte. E allora a cosa serviva tutta l'imbarazzante sequenza con i trasportatori?) o Mila e Leonardo che ascoltano le cattiverie degli amici da dietro il divano. Inoltre durante tutto il film viene affastellata una quantità sorprendente di personaggi minori di dubbia utilità ai fini della trama, caratterizzati malamente e, a volte, recitati anche peggio. Una serie di macchiette inutili che, anziché dare spessore al film, lo appiattiscono in un grigiore di mediocrità.
Infine voglio dire che citare Euclide è un'enorme idiozia, per due motivi. Il primo è che dargli del bugiardo è semplicemente stupido. A parte che applicare il linguaggio matematico alle storie sentimentali è un'operazione priva di senso, è chiaro che Euclide non è un bugiardo. Tutt'al più si può dire, volendo perseguire l'idea di base del film, che Euclide si è sbagliato, ma dargli del bugiardo è una cretinata. Il secondo motivo è che non si capisce per quale motivo i due protagonisti dovrebbero essere "rette parallele". Santo cielo, non siamo in una società basata su caste come potrebbe essere quella indiana! Mila e Leonardo sono due adulti, senzienti, che abitano nella stessa città, che fanno entrambi un lavoro dignitoso (forse il ceto sociale dei due è leggermente diverso, ma siamo nel 2009, Mila non è una barbona e Leonardo non è un multimilionario, quindi anche un po' chi se ne importa), con interessi tutto sommato affini. Perché dunque i due dovrebbero essere paragonati a rette parallele? Non c'è alcun motivo logico – e il film si guarda bene dal dare spiegazioni.
In pratica Euclide era un bugiardo non è nulla di più rispetto a un Rosamunde Pilcher da pomeriggio di Canale 5 in cui i due protagonisti si prendono e si lasciano in una serie di episodi uno più assurdo e irreale dell'altro, costruiti forzosamente solo per arrivare ai 93 minuti.

Luci della ribalta (1952)


Luci della ribalta
Limelight, USA, 1952, b/n, 137' (2h 17')
Regia di Charles Chaplin

Visto ieri su Rai Movie.

Calvero (Charles Chaplin), ex-comico in decadenza, tornando a casa ubriaco salva la vita a Terry (Claire Bloom), una giovane ballerina che stava tentando di suicidarsi col gas, e la dà ospitalità nel suo appartamento. La ragazza si riprende dall'intossicazione ma ha un blocco psicologico che le impedisce di camminare (la sorella, unica parente in vita della ragazza, ha pagato le lezioni di danza di Terry con i soldi ottenuti facendo la prostituta e ora Terry si sente in colpa per questo fatto). Calvero la prende sotto la sua ala protettiva e cerca di farle apprezzare la vita. Quando finalmente Calvero riesce a ottenere una scrittura, lo spettacolo è un tale fiasco che gli spettatori lasciano la sala prima che il numero sia finito. Calvero rescinde il contratto e rientra a casa disperato. Ora è Terry a spronarlo ad andare avanti e la ragazza prende talmente a cuore Calvero che trova la forza di ricominciare a camminare. Terry riesce a tornare a lavorare come ballerina e fa in modo che Calvero sia assunto come clown nella compagnia. Terry diventa prima ballerina finché, una sera, dichiara a Calvero il suo amore. Lui, però, capisce di non essere la persona adatta per la ragazza, data l'elevata differenza tra le loro età, e la spinge tra le braccia di Neville (Sydney Chaplin), giovane e famoso pianista. Terry e Neville si erano già conosciuti alcuni anni prima, quando lui era uno spiantato mentre lei lavorava in una cartoleria e, per aiutarlo, gli regalava qualche foglio di musica e a volte gli dava anche del resto in più, finché a causa di questi ammanchi fu licenziata.
La prima dello spettacolo è un successo strepitoso ma Calvero, anziché festeggiare con tutto il cast, preferisce cedere il suo posto a Neville e tornare a ubriacarsi. Quando il direttore del teatro, stanco di Calvero, chiama un altro comico per sostituirlo, Calvero se ne va di casa per fare l'artista di strada. Terry lo rintraccia e gli propone di fare un'ultima grande serata. Il numero finale, eseguito in coppia con un suo vecchio partner (Buster Keaton), è eccezionale ma Calvero ha un malore: viene colto da infarto e muore dietro le quinte mentre guarda Terry esibirsi sul palco.

Se devo essere sincero, non ho mai amato eccessivamente Chaplin, pur riconoscendone la grandezza e la modernità di molti dei film e delle comiche che ha realizzato. Qui il suo intento è quello di fare un film che testimoni il suo immenso amore per un certo tipo di teatro che già allora stava tramontando e che mostri il declino di un attore quando diventa vecchio. Questo è chiaro e non lo metto in dubbio, ma secondo me lo fa in modo piuttosto retorico, ricattatorio ed eccessivamente lungo.
Onestamente sembra il classico realizzato più per sé stessi (e infatti Chaplin cura tutto: regia, soggetto, sceneggiatura, produzione, musiche e coreografie) che per essere visto dal pubblico. Certo, il duetto tra Chaplin e Keaton è strepitoso, ma arriva troppo tardi e non salva il risultato. In definitiva, il film di un grandissimo artista che però non ha la forza che vorrebbe (e dovrebbe) avere.

venerdì 17 maggio 2013

Miele (2013)


Miele
Italia/Francia, 2013, colore, 96' (1h 36')
Regia di Valeria Golino

Visto ieri al Fellini di Trieste.

Irene (Jasmine Trinca) è una ragazza apparentemente normale che studia a Padova (dove divide l'appartamento con una ragazza cinese), che ha un fidanzato, Stefano (Vinicio Marchioni), e un padre (Massimiliano Iacolucci) rimasto vedovo da cui ogni tanto ritorna per passare un po' di tempo, fargli compagnia e giocare a backgammon. In realtà l'università è una copertura (e le compagne di stanza cinesi sono turiste fotografate, con un piccolo trucco, per la strada) perché Irene lavora per Rocco (Libero De Rienzo) e, col nome d'arte di Miele, aiuta i malati terminali a morire. Per farlo, Irene usa dei particolari barbiturici, pensati per sopprimere i cani, acquistati ad intervalli regolari in Messico, dove la ragazza finge di andare per turismo. Un giorno Rocco passa a Irene l'indirizzo dell'ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi), un settantenne che ha perso ogni interesse per la vita e vuole morire, ma "in modo dignitoso". Irene all'inizio lascia i barbiturici all'ing. Grimaldi ma appena capisce le vere intenzioni dell'uomo cerca di toglierglieli, però senza successo. Irene inizia così a frequentare l'ing. Grimaldi, prima per tentare di recuperare il veleno e poi perché con l'uomo, tutto sommato, si trova bene. Grazie all'interesse della ragazza, anche Grimaldi inizia a riappassionarsi alla vita finché un giorno, spontaneamente, l'uomo restituisce a Irene i barbiturici. Appena Irene se ne accorge, corre a casa di Grimaldi ma scopre che si è ucciso gettandosi dal balcone.

Miele, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2013, è un film che parla di eutanasia e lo fa – primo pregio del film – senza stereotipi e senza ridurre tutto a macchiette, come spesso il cinema italiano ci ha abituato. Il secondo, e purtroppo ultimo, pregio del film è che le tre scene di suicidio assistito sono belle: poetiche, intense ma non pesanti, toccanti, ben recitate, dirette con estremi gusto e sapienza. Qual è il problema, allora? Che il resto del film non è minimamente al livello.
Quando viene raccontata la "vita privata" di Irene, tutto si fa caotico e confuso. Si passa da un didascalismo estremo (tutte le volte in cui la ragazza fa sesso, ad esempio, ma anche i numerosi viaggi in treno/autobus/metropolitana) a dei momenti di astrazione pura (ad esempio gli insulsi flashback con la madre – una Valeria Bilello sprecatissima in quel ruolo – buttati là senza alcun motivo e senza spiegazioni). Viene introdotta un'apparente malattia cardiaca di Irene – che non sembra essere psicosomatica, benché il cardiologo non trovi nulla che non vada nel cuore della ragazza – salvo poi abbandonarla a metà film senza motivo e senza che questa abbia avuto alcun ruolo nel dipanarsi della trama. Inoltre viene tentato un lavoro di introspezione nel carattere di Irene nel modo peggiore possibile: mostrandola pensierosa in un campo di grano o in riva al mare o su un vagone della metropolitana. Spiace dirlo, ma non è con queste inquadrature fintamente artistiche che si scava nell'intima profondità di un personaggio. Servono dialoghi seri e serve una regia esperta, tutte cose che Valeria Golino, al suo esordio dietro la macchina da presa, evidentemente non ha.
Se Jasmine Trinca tutto sommato se la cava discretamente in questo ruolo non facile – anche se nelle scene in cui si arrabbia perde improvvisamente e completamente di credibilità – è difficile valutare la performance di Carlo Cecchi. Onestamente non capisco se ha interpretato magistralmente un personaggio scritto male o se ha interpretato malissimo un personaggio multiforme e sfaccettato. Gli altri personaggi comprimari spesso non sono minimamente all'altezza, come ad esempio Vinicio Marchioni, semplicemente imbarazzante nella scena dell'auto, o Libero De Rienzo che tratteggia un personaggio estremamente scialbo, limitando la sua interpretazione al mero compitino d'accademia.
Un cenno alle musiche o, meglio, al loro uso. Uno degli aspetti più interessanti è che noi abbiamo due tipi di ascolto della musica: dagli stereo (durante i suicidi assistiti, in casa dell'ingegnere, in discoteca) o come la sente Irene, dalle cuffiette del suo iPod, e quindi più forte quando le ha addosso e più debole quando se le toglie. Purtroppo questo "vivere la musica" come la vive Irene avviene solo quando la regista lo ritiene importante per la storia (o quando se ne ricorda) e non, come sarebbe stato bello, sempre, vanificandone la forza. Una parola anche sul sonoro: uno dei grossi problemi del cinema italiano degli ultimi anni è l'uso inveterato delle mezze voci e dei sussurrati. Qui Valeria Golino è bravissima a sfruttarli magistralmente nei momenti di intimità con le famiglie che richiedono i servigi di Irene, salvo poi dimostrarsi incapace di gestire eventi naturali come la pioggia (il dialogo tra Irene e Rocco è inascoltabile a causa del disturbante scrosciare dell'acqua) o non rendersi conto che la scena in cui Stefano sorprende Irene mentre questa sta preparando il caffè sarebbe stata da rigirare interamente da quanto biascicano gli attori.
Concludo con la parte più delicata. Uno dei più grossi difetti del film è che non osa. Come detto all'inizio, il tema dell'eutanasia viene trattato in modo onesto e corretto. Che bisogno c'era, allora, di far dire a Irene la battuta: «Nessuna delle persone che ho aiutato voleva veramente morire»? Trovo che questa sia un'ingerenza inaccettabile, come a mettere le mani avanti in merito a future polemiche dei mass media ("Non ho parlato bene dell'eutanasia, infatti la protagonista alla fine la condanna"). Questo punto rovina irrimediabilmente un film che è ben lontano dall'essere un buon film ma che comunque presenta alcuni pregi non comuni. Inoltre il finale buonista, con il foglio di carta che si solleva, è il colpo di grazia. Il finale amaro (in cui il foglio non si muove) sarebbe stato il terzo pregio del film ma, di nuovo, non si è osato e si è persa l'occasione di fare per una volta qualcosa di diverso.

venerdì 15 febbraio 2013

What Is Love (2012)


What Is Love
Austria, 2012, colore, 80' (1h 20')
Regia di Ruth Mader

Visto al Trieste Film Festival alla Sala Tripcovich.

Il film è diviso in cinque episodi, in ognuno dei quali ci vengono mostrati dei momenti di vita di una diversa persona.
Nel primo seguiamo una giovane e single oculista mentre guida, mentre lava l'auto, mentre lavora, mentre sta a casa a pensare, mentre mangia assieme alla sua famiglia, mentre coccola il nipotino (figlio di sua sorella) e mentre balla in discoteca (con indosso una maglietta con la scritta "What love", chiaro riferimento al titolo del film).
Nel secondo vediamo un lungo dialogo in piano sequenza in cui Walter, impiegato di banca di mezza età, discute con sua moglie Eva del loro matrimonio. Lei gli rinfaccia di lavorare sempre fino a tardi e di stare poco con lei e con i figli, così Walter si organizza per poter lavorare da casa. Seguono momenti di vita della famiglia: Eva che stende il bucato, la figlia piccola che gioca, la famiglia durante una gita al fiume e Walter che guida l'auto.
Nel terzo episodio seguiamo un prete, mentre prega, mentre si veste e si prepara per la Messa, mentre confessa, mentre distribuisce volantini (probabilmente per salvare la sua chiesa dalla chiusura) e mentre prega da solo.
Nel quarto seguiamo un'operaia (con una non ben chiara mansione in una non precisata fabbrica) mentre lavora, mentre si trucca e mentre cura un giardino, e parallelamente seguiamo suo figlio mentre parla di moto e mentre sega delle cassette di legno.
Nell'ultimo episodio seguiamo un guardaboschi (?) sposato e con tre figli. Sua moglie lo rimprovera di non vestirsi mai elegantemente quando i due escono per qualche occasione speciale e - dopo un dialogo surreale in cui il marito ripete parola per parola ciò che ha detto la moglie un istante prima per essere sicuro di aver capito - l'uomo promette di portarla ad un concerto e di indossare più spesso la cravatta. Seguono momenti di vita della famiglia: una gita al lago, lei che suona la chitarra, lui che cammina in un bosco, loro al concerto, la famiglia che prega, lei che rifà i letti dei figli e il suo.

C'è poco da dire sul film, visto che c'è poco nel film. L'intento del regista è chiaro: sono tutte diversi modi di vedere l'amore. All'oculista manca, e lo si capisce dalla vuota routine delle sue giornate e da come si coccola il nipotino; Walter ce l'ha ma sta scemando (dice chiaramente alla moglie che, in una scala da 1 a 10, il loro amore è un 2) ma resiste per il bene dei figli; nel prete c'è l'amore per Dio e per la sua parrocchia; nell'operaia c'è quello per il figlio; nell'ultima storia l'amore è di nuovo per la famiglia, ma diverso da quello di Walter. Il problema è la staticità, l'immobilità del film. Se rappresentare l'amore tramite i gesti quotidiani può essere interessante, sicuramente non lo è dilatare i tempi in questa maniera. Mostrare Walter che guida non ci aiuta in alcun modo a comprendere o a farci avvicinare al suo amore. Ci aiuta solo ad annoiarci. Esattamente come annoia vedere la donna protagonista dell'ultimo episodio intenta nel rifare i letti (spesso, peraltro, fuori campo). E come buona parte del resto delle scene, a parte rarissimi momenti in cui l'operazione può essere giustificata.

martedì 29 gennaio 2013

Terra di nessuno (1939)

Terra di nessuno
Italia, 1939, b/n, 94' (1h 34')
Regia di Mario Baffico

Visto al Trieste Film Festival al Teatro Miela.

Rinaldo (Umberto Sacripante), dopo diversi anni in cui è stato in America, torna in patria assieme all'amico Pietro Gori (Mario Ferrari). Una sera i due si fermano per riposare ad un crocevia che si scopre essere luogo di passaggio per chiunque voglia arrivare nei villaggi vicini. Pietro e Rinaldo decidono di mettere su un posto di ristoro in quel punto. Pian piano, la zona si popola e sorge un piccolo villaggio. Pietro, in quella terra, ha trovato il suo senso di vita ma Rinaldo è inquieto: vorrebbe tornare al suo paese natale, distante dal nuovo villaggio solo un giorno di cammino, ma per una sorta di attaccamento a Pietro non lo fa mai. I mesi passano, Pietro si sposa con Grazia (Laura Solari) - una giovane e bella ragazza conosciuta proprio la sera in cui lui e l'amico si sono fermati in quel posto - da cui ha una figlia, Bettina (Nelly Corradi). Intanto la famiglia Securo, proprietaria della terra su cui è sorto il villaggio, non vede di buon occhio l'occupazione indebita da parte di Pietro ma ne concedono l'utilizzo dietro pagamento di una tassa "pro forma". Il figlio dei Securo, Rocco (Maurizio D'Ancora), incontra Bettina, si innamora di lei e i due si sposano. Intanto Grazia si ammala e muore. Pietro prova a seppellirla ma la famiglia Securo si oppone fermamente. Neanche l'intercessione di Bettina ha effetto su questa decisione così Pietro e gli altri abitanti del villaggio si rivoltano contro le guardie dei Securo barricandosi nel paese. Ne segue uno scontro che finisce con l'uccisione di Bettina la quale, prima di morire, chiede di essere sepolta nel villaggio assieme a sua mamma. Pietro, sconvolto, sente che il villaggio non è più "suo" perciò fugge di notte senza salutare nessuno, neanche l'amico Rinaldo.

Il film è tratto da due novelle di Luigi Pirandello ed è sceneggiato da Stefano Landi, figlio dello stesso Pirandello - e bisogna dire che l'impostazione letteraria si avverte chiaramente da certi dialoghi. Film abbastanza di maniera che, tutto sommato, si segue bene, eccezion fatta per il finale con la morte di Bettina che risulta un po' troppo artificiosamente melodrammatico.

Nota: il film è stato priotettato come omaggio a Laura Solari, attrice triestina, nel centenario della sua nascita. La proiezione di questo film, inoltre, segna l'avvio del primo progetto in comune della Casa del Cinema di Trieste, inauguando una liaison tra i maggiori festival cinematografici della città. L'omaggio, infatti, parte dal Trieste Film Festival, proseguirà in Maremetraggio e si concluderà a I mille occhi.

domenica 20 gennaio 2013

Il viaggio della Signorina Vila (2012)


Il viaggio della Signorina Vila
Italia, 2012, colore, 60' (1h)
Regia di Elisabetta Sgarbi

Visto al Trieste Film Festival alla Sala Tripcovich.

Il film/documentario presenta Trieste tramite una serie di interviste a importanti personalità della città, quali Claudio Magris, Boris Pahor, Susanna Tamaro, Gillo Dorfles e molti altri, il tutto raccontato dalle voci di Toni Servillo e Lucka Pockaj e con le musiche di Franco Battiato.

Il film vuol essere un omaggio a Trieste, ma è un omaggio confuso e stereotipato. Le immagini sono vecchie, ma non nel senso letterale del termine - è chiaro che sono state girate adesso. E neanche nel senso di vintage o "vecchio stampo" - sarebbe stata comunque una scelta interessante. Parlo di vecchio nel senso proprio di stantio, di un modo di riprendere superato, che non si usa più (per fortuna...). Le immagini sono spesso didascaliche o senza senso - viene mostrato continuamente il tram, con la pioggia e con il sole, senza che ce ne sia una ragione apparente. Per carità, sono indubbiamente immagini suggestive in sé (alcune riprese delle Rive fatte dal mare sono stupende) ma sono immagini da cartolina, e a volte anche di quelle cartoline un po' imbarazzanti che, quando le vedi esposte, ti chiedi chi mai possa comprarle e spedirle (mi riferisco in particolar modo alla scena finale coi ragazzi che corrono e si tuffano in mare). Sono immagini patinate che potrebbe fare chiunque si avvicini a Trieste per la prima volta ma che sono inaccettabili per chi dichiara di voler girare un atto d'amore verso Trieste e di voler cogliere la triestinità.
Nelle interviste gli autori raccontano storie che sono eccessivamente personali - vedi il caso di Magris che racconta del suo rapporto con il mare - oppure sono aneddoti che non hanno né capo né coda - come quello della custode del cimitero che non ha alcun senso proprio perché comincia a metà e non si capisce dove voglia andare a parare - oppure sono stereotipi - come quello della Tamaro che parla della bora. Andiamo, ancora si parla della bora come del «vento che spazza le preoccupazioni dei triestini»? Francamente non se ne può più di Trieste raccontata così: è un modo superato. O ancora Pahor che nella sua intervista parla dell'incendio al Narodni Dom, evento fondamentale per la storia sua personale e per quella di molti sloveni, ma che nel film viene citato senza spiegare neppure cosa fosse (già molti triestini non lo sanno, figurarsi gli altri...), e questo rende del tutto incomprensibile - e quindi inutile - l'aneddoto. E, purtroppo, praticamente ogni intervista ricade in una di queste tipologie, rendendo l'intero film scarsamente interessante.
Infine i temi: si parla ancora di Trieste in termine degli esuli e degli ebrei. Onestamente non se ne può più di Trieste raccontata in questo modo. Ancora la Risiera e ancora Basaglia? Non dico non siano temi importanti, intendiamoci, ma da una regista giovane che vuole mostrare la "vera" Trieste mi aspetto qualcosa di diverso... Inoltre tutti questi racconti sono accatastati in modo generico e confuso: si passa dalla bora, alla questione degli esuli, ai ricordi di un pittore senza che ci sia alcun collegamento tra un argomento e l'altro, senza un filo logico, buttati là a casaccio senza approfondire minimamente. Così, in questo saltabeccare di qua e di là, seguire la trama - ammesso che ce ne sia una - diventa noioso e fastidioso e questo, spiace dirlo, non giova minimamente all'immagine di Trieste. Trieste che meriterebbe ben di più che un mediocre filmetto di questo tipo.