martedì 25 settembre 2012

Addio, Alexandra (1969)

Addio, Alexandra
Italia, 1969, colore, 91' (1h 31')
Regia di Enzo Battaglia

Visto a I mille occhi al cinema Ariston.

Elisabetta (Colette Descombes) è una giovane ragazza, divorziata da Stefano (Glenn Saxson) e con una bimba piccola. Quando la cugina Alexandra (Anna Maria Pierangeli) invita i due a casa sua in Olanda, Elisabetta decide di accettare l'invito. Alexandra non sa che i due sono divorziati, così Elisabetta e Stefano si presentano da lei fingendo di essere ancora sposati. I due, però, cominciano ben presto a litigare per ogni cosa, mettendo più volte in imbarazzo Alexandra. Alla fine Elisabetta confessa alla cugina che i due non si sopportano più ma si desiderano così tanto da vedersi ancora ogni notte per fare sesso. All'ennesimo litigio dei due, Alexandra cerca di appianare le divergenze: cerca di convincere Elisabetta a essere meno gelosa e parla con Stefano il quale però le chiede del suo amore per il marito, Will, e di come lei abbia fatto a restargli fedele per tanti anni.
Una sera Elisabetta, da sbronza, dà a Stefano il permesso di fare l'amore con Alexandra. Allora Stefano ci prova con Alexandra ma quest'ultima, per fedeltà a Will, rifiuta. Elisabetta assiste alla scena ma fa finta di niente. Quella notte Alexandra sogna di fare l'amore con Stefano e di essere scoperta da Will che la lascia. Questo sogno lascia Alexandra molto turbata, tanto che per riaddormentarsi è costretta a prendere del sonnifero.
La mattina dopo Elisabetta sta smaltendo la sbornia, così Alexandra e Stefano escono da soli. Quando un acquazzone li coglie, i due si rifugiano in macchina e fanno sesso, anche se Alexandra è titubante per paura della reazione di Will se dovesse scoprirlo.
Al loro rientro Elisabetta confessa a Stefano di averlo tradito con altri uomini. I due si riconciliano, fanno l'amore e invitano Alexandra ad unirsi a loro in una cosa a tre. Alexandra sulle prime tentenna ma poi accetta. «Terminata la vacanza, Stefano ed Elisabetta si allontanano, apparentemente felici»*.

Un buon film. Sicuramente non esaltante, ma ben costruito. Qua e là, specialmente all'inizio, c'è qualche ingenuità di regia ma, tutto sommato, il film è di buona fattura. Per certi versi e certe tematiche il film ricorda Come, quando, perché ma, rispetto a quello, Addio, Alexandra è inferiore in quanto a inquadrature e sottotesto. Ad ogni modo la costruzione dei personaggi è molto curata e funziona. Particolarmente interessante il dettaglio che il marito di Alexandra, Will, non si veda mai, neppure nel sogno della donna, proprio per sottolineare la centralità dei tre personaggi rispetto a tutto il resto.



* La fine della recensione è tratta da comingsoon.it perché la copia proiettata al Festival era talmente in cattive condizioni che, da un certo punto in poi, il film era impossibile da seguire.

lunedì 24 settembre 2012

Come, quando, perché (1969)


Come, quando, perché
Italia/Francia, 1969, colore, 103' (1h 43')
Regia di Antonio Pietrangeli

Visto a I mille occhi al cinema Ariston.

Il film si apre con una sequenza in cui vediamo un ragazzino, Marco, conoscere per la prima volta i turbamenti d'amore a causa di Elisa, una ragazzina amica di famiglia.
Dopo uno stacco troviamo Marco (Philippe Leroy), divenuto un imprenditore benestante, sposato con Paola (Danièle Gaubert). Alberto (Horst Buchholz), amico di Marco, ci prova con Paola ma lei, fedele al marito, lo rifiuta e, per evitare di incontrarlo di nuovo in città, parte per una vacanza in Sardegna. Marco promette di raggiungere Paola entro un paio di giorni ma ha problemi col lavoro e rimanda la partenza. Andrea approfitta della circostanza e va in Sardegna per stare con Paola, adducendo la scusa di essere in partenza per l'Argentina e che quella è l'ultima occasione per i due di vedersi. Paola, intanto, riceve le insistenti attenzioni di Ingrid (Colette Descombes), un'avvenente turista straniera.
Alberto e Paola si divertono e girano in lungo e in largo l'isola finché, durante una telefonata con Marco, scopre che Alberto non deve affatto partire per l'Argentina. Alberto non nega e Paola, furiosa, decide di tornare a casa a Torino. Prima che possa farlo, però, Paola riceve la visita di Ingrid che le dichiara il suo amore per lei. Paola la respinge e Ingrid ritorna in patria.
Paola rimane talmente scossa dalle parole di Ingrid che rimanda la partenza e si chiude per un giorno intero in camera sua. La sera sera Alberto la chiama per dirle che l'indomani partirà veramente per l'Argentina e che non la cercherà più. Paola allora va da lui, i due finiscono a letto e diventano, di fatto, amanti. Paola è innamorata di Marco ma è solo con Alberto che ha ottenuto le soddisfazioni sessuali che con Marco non ha mai avuto.
Paola torna a Torino e lo stesso giorno Marco parte per Londra con un aereo privato. La sera Marco dovrebbe tornare ma la forte nebbia impedisce agli aerei di atterrare. Preoccupata per la vita del marito, Paola si dà da fare per avere sue notizie ma Marco è già a casa che la aspetta essendo atterrato a Genova. Paola, che si era tanto preoccupata, ha un crollo di nervi ma Marco la rincuora.
Marco e Paola, per cambiare aria e per stare un po' assieme, decidono di andare nella casa in campagna per qualche giorno ma Alberto, a sorpresa, li raggiunge. L'uomo, però, ben presto si pente dell'azione perché è ovvio che Paola deve - e vuole! - stare con il marito.
Pochi giorni dopo Marco rivela involontariamente a Paola che Alberto deve partire per tornare in Argentina, questa volta sul serio. Alberto conferma e, geloso di Marco, dice che in fondo è meglio così. Paola, dopo la partenza di Alberto, cade in una specie di depressione mista a malinconia per i giorni passati con l'amante.
Un giorno Paola viene importunata in un cinema e, disperata, si rifugia nella casa di campagna. Il giorno dopo Marco la trova. Lei inizialmente si mette a piangere e addossa a Marco tutta la colpa della sua infelicità. Poi, però, i due fanno l'amore appassionatamente, probabilmente come non l'hanno mai fatto.

Ultimo film diretto da Pietrangeli e alla sua morte, avvenuta praticamente alla fine delle riprese, sostituito da Vittorio Zurlini.
Ottimo film. Bellissima in particolar modo la cura dei particolari e delle atmosfere. L'attenzione delle inquadrature, il gioco di squardi, l'uso sapiente degli specchi rendono il film estremamente poetico. È stato molto bravo Pietrangeli a dire molto di più con i sottintesi, con gli sguardi e con gli atteggiamenti rispetto che con le battute di dialogo vero e proprio. Effettivamente ricorda per molti aspetti il Cinema di Zurlini, ma la precisione e la sapienza di Pietrangeli, a mio avviso, sono ad un livello superiore rispetto a buona parte dei lavori di Zurlini.
L'unica parte poco chiara del film è la sequenza di Marco bambino. Non solo Elisa non ricompare nella storia, ma non è neppure chiaro come l'incontro tra i due ragazzi potrebbe o dovrebbe aver influenzato la vita del Marco adulto.

giovedì 13 settembre 2012

I mille occhi 2012


Domani inizia l'undicesima edizione del Festival I mille occhi al cinema Ariston di Trieste.
Questa edizione, che porta il sottotitolo Lettera da una sconosciuta, è dedicato in particolare a due filoni: un omaggio a Valerio Zurlini in occasione dei trent'anni della sua morte e un omaggio a Lia Franca, attrice triestina degli Anni '30, con la proiezione di tutti i film e i corti ha cui ha preso parte nella sua breve avventura cinematografica.
Io seguirò il Festival in tutti i sette giorni, guardando più film possibili e rendendone conto sulle pagine di questo blog.

mercoledì 5 settembre 2012

Outrage (2010)


Outrage
Autoreiji (アウトレイジ), Jap, 2010, colore, 109' (1h 49')
Regia di Takeshi Kitano

Visto su Rai 3 all'interno di Fuori orario.

Il film racconta della lotta tra clan della Yakuza per ottenere il potere e per poter gestire il traffico di droga a Kantō, la regione che comprende anche Tokyo. Il capo supremo, Mr Chairman (Sôichirô Kitamura), vuole sostituire il clan di Murase (Renji Ishibashi) con quello di Ikemoto (Jun Kunimura), ma Ikemoto e Murase sono fratelli di sangue. Così tocca a Ôtomo (Takeshi Kitano), un membro di lungo corso della Yakuza ancora relegato ad un ruolo secondario all'interno della famiglia e che vive male la presenza di membri giovani che non condividono i valori in cui crede, risolvere la questione. Ôtomo riesce a estromettere Murase dagli affari mentre Ikemoto, sicuro della nuova posizione ottenuta, si perde nel gioco d'azzardo, creando ulteriori tensioni tra le famiglie. Mr Chairman allora chiede a Ôtomo di eliminare Ikemoto, dietro la promessa di un avanzamento di grado. Questo porta ad un'escalation di vendette e ripicche per cui tutti gli uomini di Ôtomo vengono sterminati e Ôtomo stesso è arrestato dal poliziotto corrotto Kataoka (Fumiyo Kohinata). Sicuro di prendere il posto del suo capo Ikemoto, Osawa (Tetta Sugimoto) tenta di stringere un accordo con Mr Chairman ma viene ucciso da Katô (Tomokazu Miura) il quale fa fuori anche Mr Chairman diventando così capo della Yakuza. Nel frattempo Ôtomo in carcere viene pugnalato da uno dei detenuti e dichiarato morto.

Il film è un classico Yakuza movie, con una solida regia e ben girato. Un ottimo intreccio narrativo, coerente e perfetto per un film del genere. Le uccisioni si susseguono con un buon ritmo e appaiono credibili, naturalmente sempre per un film "Yakuza style". E allora, qual è il problema? Uno solo, ma grossissimo: la quantità di volti e nomi diversi rende difficilissimo seguire la storia. I membri delle varie famiglie si confondono e capire esattamente chi stia vendicando chi uccidendo chi è davvero arduo. Così il film perde forza, si sgonfia e diventa noioso. Si trasforma in una serie di uccisioni, più o meno cruente, completamente avulse dal contesto. Inoltre c'è da dire che spesso si assiste ad un'inutile spettacolarizzazione dei delitti. Uno su tutti: qual è il senso dell'omicidio con la corda? Non ha causato gravi sofferenze alla vittima e non aveva una valenza simbolica. E allora? Esclusivamente per evitare un'altra uccisione con la pistola?
Comunque, a parte quest'ultima cosa, il film è abbastanza anonimo. Si lascia guardare (pur con le difficoltà espresse prima) ma conquista poco: mancano le innovazioni, la spettacolarità e la freschezza che Kitano ha dimostrato in altre pellicole di avere. Onestamente mi sentirei di consigliarlo solo ad un pubblico di veri appassionati del genere.

venerdì 31 agosto 2012

Io sono Tony Scott (2010)


Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz
Italia, 2010, colore & b/n, 128' (2h 8')
Regia di Franco Maresco

Visto su Rai 3 all'interno di Fuori orario.

Il documentario racconta la vita e il declino di Tony Scott, nome d'arte di Anthony Joseph Sciacca, clarinettista jazz italo-americano che ebbe uno straordinario successo nell'America degli Anni '50. Nato da due genitori originari di Salemi, in provincia di Trapani, Tony si è presto appassionato al clarinetto e, negli Anni '50 riesce a suonare con artisti del calibro di Charlie Parker, Billie Holiday, Buddy De Franco (cui strapperà per alcuni anni il titolo di "Miglior clarinettista"), Harry Belafonte (per il quale Tony sostiene di aver scritto Banana Boat Song), Bill Evans (convincendolo a lasciare la musica classica per darsi al jazz) e, seppur bianco, riesce a farsi ben volere dalla comunità nera che a quei tempi aveva il "monopolio" della cultura jazz. Negli Anni '60 Tony decide di fare un lunghissimo tour in tutta l'Asia per studiare la cultura di quei paesi e il loro modo di fare musica e per tentare una fusione tra jazz e musica popolare orientale. Al ritorno negli Stati Uniti, alla fine degli Anni '60, Tony non si ritrova più nei nuovi valori e nella nuova società americana e decide di trasferirsi in Italia. Qui risiede tra Roma e Milano fino al 2007, anno in cui muore in seguito all'aggravarsi di un tumore alla prostata, barcamenandosi tra serate nelle balere e concerti nelle feste di piazza, pur di racimolare qualche lira. Il suo carattere ribelle, la sua scontrosità e qualche lieve disturbo psichico (forse dovuto alle torture inflittegli durante una detenzione in Indonesia per spionaggio) hanno fatto sì che negli ultimi anni della sua vita Tony fosse praticamente dimenticato se non, appunto, per spettacoli di infimo ordine.
Tutto il documentario alterna interviste a Tony Scott, alle tre mogli e alle due figlie, a jazzisti e ad esperti nel campo, sia italiani che stranieri, con vecchi filmati di repertorio e vecchie fotografie.

Il documentario mostra i suoi limiti fin da subito. In realtà i limiti li crea tutti Maresco che tenta di dimostrare la sua tesi ("La colpa della morte di Tony Scott è da imputare interamente all'Italia") con una serie di artifici retorici sfacciati e stucchevoli. Il film si apre con un'intervista televisiva del 2005 di Paolo Bonolis che, per lo meno nello spezzone che Maresco ci mostra, fa una battuta a Tony Scott non felicissima ma neppure così tremenda. Eppure questo basta a Maresco per sostenere che Bonolis ha umiliato il più grande jazzista del Mondo e partire con la sua filippica retorica contro l'Italia. Filippica che ha il suo culmine di cattivo gusto quando Maresco tira fuori un antiberlusconismo totalmente fuori luogo che sottintende che è colpa di Berlusconi se Tony Scott ha fatto quella fine. Probabilmente il passo successivo sarebbe stato dimostrare che anche le torture in Indonesia o il tumore alla prostata sono imputabili all'"italietta" berlusconiana; per fortuna il regista si è fermato prima.
Ad ogni modo, il documentario dà per assodato che Tony Scott fosse uno dei jazzisti migliori del mondo, senza tentare di dimostrarlo o di spiegare il perché (nelle esibizioni più recenti non mi sembrava così eccezionale. Anzi, tutt'altro). Inoltre tutto quello che dice Scott viene preso per vero, senza un controllo, un approfondimento o una verifica, anche qui nonostante nelle interviste più di qualcuno affermi che era uno che voleva attirare su di sé l'attenzione (e quindi non è detto che non abbia "gonfiato" qualche aneddoto a suo favore).
Guardando il documentario ci si pone diversi interrogativi: perché Billie Holiday o Bill Evans (che ha iniziato grazie a Scott) oggi sono ricordati mentre Tony Scott è scivolato nell'oblio? Davvero solo perché si è trasferito in Italia negli anni '70? E se è vero che gli spettatori statunitensi sono andati in visibilio per la reunion del 2003 con Buddy De Franco, perché dagli anni '70 ad oggi non hanno fatto niente per ricordare questa "stella del jazz"? Tutte domande legittime che però il documentario non segue, impegnato com'è ad addossare tutte le colpe agli italiani ingrati.
Infine trovo fastidioso che di tutti i filmati che compongono il documentario non ci sia un riferimento temporale né in sovrimpressione né nei titoli di coda. Sarebbe stato utile capire da dove è stata tratta ogni esibizione e, soprattutto, di che anno si trattava, per cercare di mantenere un filo logico mentale, poter rendersi conto dei cambiamenti della tecnica nei vari periodi ed eventualmente per avere una traccia per recuperarli. Sarebbe stato interessante sapere chi era raffigurato in quelle foto, specialmente per chi non bazzica molto il jazz. Sarebbe stato fondamentale sapere da che film sono tratti gli spezzoni dei film. E invece niente.
Onestamente io sono convinto che questo sia uno dei modi peggiori per realizzare documentari (specialmente considerato che, stando alle voci, ci sono voluti quasi quattro anni per completarlo): non si fa un buon servizio né al genere, né al soggetto del film.

giovedì 30 agosto 2012

Manhunter - Frammenti di un omicidio (1986)


Manhunter - Frammenti di un omicidio
Manhunter, USA, 1986, colore, 119' (1h 59')
Regia di Michael Mann

Visto ieri sera su Rai Movie.

L'agente dell'FBI Will Graham (William Petersen) viene richiamato in servizio dal congedo anticipato per indagare su un serial killer, detto "Dente di fata", che ha già massacrato due intere famiglie durante le precedenti notti di Luna piena. Seppur riluttante, Will accetta il caso e, per prima cosa, si reca al manicomio criminale per parlare col dottor Hannibal Lecktor (Brian Cox), il pericoloso criminale che qualche tempo prima lo aveva aggredito lasciandogli ferite fisiche e psicologiche che lo hanno portato, appunto, alla pensione. Grazie ad alcune fortunate intuizioni, Will riesce a trovare un'impronta parziale del killer, ma è ancora troppo poco per un'identificazione. Will allora decide di stringere un accordo con Freddie Lounds (Stephen Lang), un giornalista più interessato agli scoop che alle persone, per tendere una trappola al killer. Il piano non va come sperato e, anziché assalire Will, l'assassino rapisce e uccide Freddie dandogli fuoco nel parcheggio del suo giornale. Nel frattempo il killer riesce a comunicare con Lecktor e a farsi dare da quest'ultimo l'indirizzo di casa di Will. Per fortuna all'arrivo della Polizia non c'è traccia dell'assassino ma la moglie di Will, Molly (Kim Greist), e il loro figlio Kevin sono particolarmente spaventati e non vorrebbero che Will continuasse nelle indagini.
Intanto "Dente di fata", ovvero Francis Dolarhyde (Tom Noonan), uno psicopatico che lavora in un laboratorio di sviluppo pellicole fotografiche, inizia una storia d'amore con Reba (Joan Allen), una ragazza cieca che lavora nel suo stesso laboratorio. Quando però la sorprende in compagnia di un altro loro collega, Francis decide di eliminare il presunto rivale e di rapire la donna per ucciderla. Will, cerca di immedesimarsi sempre di più nel killer, fino a immaginare di dialogare con lui e, guardando dei filmati che ritraggono le due famiglie fatte a pezzi dall'assassino, capisce che quest'ultimo va cercato tra gli sviluppatori di pellicole di St. Louis. In breve tempo Will riesce ad identificare Francis e a scoprirne l'indirizzo di casa. Will e il suo capo, Jack Crawford (Dennis Farina), riescono ad arrivare appena in tempo per salvare Reba e uccidere Francis. Alla fine del film Will torna a casa con la sua famiglia e decide di ritirarsi definitivamente dalle indagini.

Onestamente trovo che Manhunter sia un film privo di mordente. Dovrebbe essere un raffinato thriller psicologico che però non coinvolge. La figura del dottor Lecktor è praticamente inutile ai fini della vicenda: non dà indizi o consigli utili al caso, non è chiaro perché Will si rivolga a lui (i motivi del loro incontro/scontro precedente sono così fumosi che risultano poco convincenti. O, meglio, non giustificano la fiducia incondizionata di Will nei confronti dell'uomo che ha cercato di ucciderlo e gli ha fatto passare mesi in un ospedale psichiatrico) né perché lo stesso Will continui a rivolgersi a lui anche dopo che questo rivela l'indirizzo di casa dell'agente all'assassino. È un film di occasioni perdute, di spunti accennati ma non portati fino in fondo: lo scambio di lettere tra Francis e Lecktor, la cassetta che Francis fa registrare al giornalista, le minacce alla famiglia di Will. Tutte buone idee che però non vengono sviluppate. Inoltre i soliloqui di Will con l'assassino sono, alla lunga, fastidiosi e danno l'idea (probabilmente errata) di servire all'unico scopo di far capire in modo facile allo spettatore i pensieri di Will. Infine la scelta di mostrare Francis appena a tre quarti dall'inizio, oltretutto con una storia d'amore che esula dalla sua "routine" di serial killer, appare incomprensibile. Anche qui, sembra un modo facile per concludere in modo buonista la storia (se Francis fosse andato a uccidere la famiglia "prescelta" ce l'avrebbe fatta e l'FBI non l'avrebbe fermato, se non a cose avvenute. Francis invece tenta di uccidere Reba a casa sua così Will può piombare provvidenzialmente lì e ucciderlo). In definitiva è un film fatto di tanti piccoli cliché del genere appena accennati che, presi singolarmente, quasi non si notano ma che messi assieme diventano fastidiosi.
La regia di Mann è, tutto sommato, buona benché si perda in particolari sequenze di difficile comprensione. Peccato solo per il finale inutilmente fracassone che stona con il resto e che tenta di creare suspense con metodi poco originali e non giustificati nell'economia del film.

venerdì 29 giugno 2012

Rock of Ages (2012)



Rock of Ages
Rock of Ages, USA, 2012, colore, 123' (2h 3')
Regia di Adam Shankman

Visto al Giotto di Trieste.

Sherrie (Julianne Hough), una ragazza dell'Oklahoma, parte alla volta di Hollywood per cercare di fare carriera come cantante. Al suo arrivo in città, però, viene derubata di tutti i suoi averi e, in particolare, di tutti i suoi dischi. Drew (Diego Boneta), un cameriere del Bourbon (o, più precisamente, The Bourbon Room), storico "tempio del rock" della città, l'aiuta e le trova un lavoro al locale. Nel frattempo Patricia Whitmore (Catherine Zeta-Jones), la bigotta moglie del sindaco (Bryan Cranston) cerca di far chiudere il Bourbon adducendo come scusa della sua avversione per il rock il voler ripulire la città da sesso e droga. Il Bourbon è prossimo alla bancarotta e l'unico modo per salvarlo è il concerto degli Arsenal, la band di Stacee Jaxx (Tom Cruise). Questi è una stella del rock particolarmente bizzarra, guidata da un manager senza scrupoli di nome Paul Gill (Paul Giamatti). Il giorno della grande serata la band che doveva aprire il concerto ha dato forfait e così Sherrie propone Drew. Nel frattempo Stacee arriva al locale dove trova ad aspettarlo Constance (Malin Åkerman), una giornalista della rivista Rolling Stones. Dopo una curiosa intervista, la giornalista salta addosso al cantante salvo pentirsi poco dopo del gesto appena compiuto. Per un equivoco Drew crede che Sherrie abbia fatto l'amore con Stacee, così dà il meglio di sé sul palco ma rompe il fidanzamento con la ragazza la quale si licenzia dal locale e se ne va. Anche Drew si licenzia dal locale accettando la proposta di Paul di diventare un cantante al livello di Stacee. Paul intanto decide di non mantenere la parola data e si porta via tutto l'incasso della serata lasciando così i gestori del bar, Denis (Alec Baldwin) e Lonny (Russell Brand) – i quali nel frattempo scoprono di essere omosessuali e di amarsi – ancora alle prese con i conti da pagare.
Sherrie, per quadagnare un po' di soldi, decide prima di fare la cameriera in un locale di spogliarello gestito da Justice Charlier (Mary J. Blige) e poi, stanca di essere importunata dai clienti del locale, di diventare lei stessa una ballerina. Drew, invece, viene convinto da Paul a lasciar perdere il rock, che secondo lui non va più di moda, per mettere su una patetica boy band. Intanto su Rolling Stones esce l'articolo di Constance che mette in risalto il carattere bambinesco di Stacee nonché la scarsa professionalità e la mancanza di morale del suo manager. Stacee decide così di licenziare Paul senza sapere che questi aveva già preso accordi con i gestori del Bourbon per un inesistente concerto da solista della rockstar che avrebbe dovuto lanciare contemporaneamente anche la nuova boy band di Drew. Drew e Sherrie si incontrano per caso e provano a ricominciare ma la ragazza non vuole. Drew allora consegna una cassetta in cui ha inciso una canzone a lei dedicata e, per dimostrarle ancora di più il suo amore, riacquista tutti i dischi che la ragazza aveva perso a inizio film e che, nel frattempo, sono stati rivenduti ad un negozio di musica, e glieli fa recapitare allo strip-club.
Quando Stacee tenta di contattare Constance scopre del concerto di cui non sapeva niente e decide di recarsi al Bourbon per chiarire la situazione. Al suo arrivo al locale trova Patricia e le altre donne della chiesa che stanno bisticciando con i fan della rockstar. Quando Stacee vede Patricia sembra riconoscerla e la chiama con il nome "Patty" mentre lei, evidentemente attratta da Stacee, perde la sua austerità e tenta di baciarlo. Nell'assistere alla scena Lonny si ricorda di aver già visto Patricia nella foto che faceva da copertina all'album di Stacee Jaxx registrato al Bourbon: recupera così il disco e lo fa vedere in diretta Tv, per mostrare a tutti quanto la moglie del sindaco sia ipocrita nella sua campagna contro il rock. Intanto Stacee al Bourbon reincontra Constance e fa con lei l'amore in uno dei bagni, non prima però di aver restituito l'incasso sottratto da Paul ai gestori del locale che, in questo modo, possono pagare le tasse e salvare il Bourbon dalla chiusura. Nel frattempo la boy band di Drew fa fiasco ma Sherrie riesce a salvare la situazione interpretando con Drew la canzone che il ragazzo ha scritto per lei. La canzone è talmente bella che fa presa anche su Stacee, tanto che la userà come inedito nei suoi prossimi concerti cantandola in coppia con Drew e Sherrie. Al concerto rivediamo anche Constance, incinta di Stacee, che evidentemente ha deciso di mettere la testa a posto, e Patricia che si è di nuovo convertita al rock.

Voglio essere sincero: il rock non è il mio genere preferito ma mi piace molto il musical e se questo è fatto bene, poco importa di quale genere sia la musica. Il problema è che questo musical non è fatto bene. Certo, il cast è di prima scelta – e, in effetti, gli attori sono dei meravigliosi interpreti – ma la sceneggiatura proprio non va, e questo si deve in minima parte alla quella originale del musical e molto a quella del film. Alla prima si devono due storture in particolare: una è il fatto che, generalmente, quando si ricavano musical da canzoni preesistenti si ha la sensazione che la trama sia un mero pretesto per infilare alla bell'e meglio una serie di brani più o meno famosi. Questo non sarebbe di per sé un problema se Broadway non ci avesse abituato a cose ben migliori, e per questo il risultato risulta sciatto. L'altra stortura è che risulta fastidiosissimo che delle fanatiche anti-rock cantino usando canzoni rock. Lo so che in un musical rock questo è praticamente inevitabile, però onestamente è una cosa molto, molto irritante. Dall'altra parte la sceneggiatura per il film ha una pecca insormontabile: la pessima caratterizzazione dei personaggi. Il manager Paul è troppo buono, addirittura simpatico, mentre dovrebbe essere una carogna senza scrupoli. Altrettanto si può dire per Patricia che, oltre a non mettere mai in pratica le sue mille minacce (e questo fa perdere credibilità al personaggio), è talmente mal tratteggiata che si capisce subito dove andrà a parare. Il personaggio della giornalista è insensato, incoerente e scritto male e serve solamente affinché Stacee si renda conto di che persona è Paul (oltre a fornire un lieto fine alquanto stucchevole). I personaggi dei due gestori sono ben scritti e coerenti finché non salta fuori senza motivo la loro storia d'amore che non serve a niente se non a far cantare loro una canzone. Bryan Cranston fa un buon cameo, ma è sprecato per un ruolo del genere e il personaggio di Mery J. Blige, probabilmente per sfruttare la popolarità della cantante, appare inopinatamente e inutilmente in ogni canzone da metà film in poi. Inoltre il regista Adam Shankman ha chiare difficoltà nel far muovere gli attori durante le canzoni (una su tutte, l'imbarazzante coreografia di Catherine Zeta-Jones durante il numero all'interno della chiesa). Per tutti questi motivi il risultato è un prodotto inferiore alla media che si salva solamente grazie alle abilità dei protagonisti.

domenica 10 giugno 2012

Hunger Games (2012)



Hunger Games
Hunger Games, USA, 2012, colore, 142' (2h 22')
Regia di Gary Ross

Visto al Nazionale di Trieste.

In un Mondo distopico o post-apocalittico, l'America è sostituita da Panem, uno Stato diviso in quattordici zone: la ricca Capitol, dodici Distretti via via sempre più poveri a seconda del loro numero d'ordine e un tredicesimo Distretto ormai disabitato. Ogni anno, da 74 anni, come punizione per essersi ribellati al governo della capitale, i dodici Distretti devono sorteggiare un ragazzo e una ragazza (detti "tributi") da mandare agli Hunger Games, una sorta di reality show in cui i ventiquattro ragazzi si massacrano in un'arena controllata finché non resta vivo uno solo dei partecipanti. Per il Distretto 12 vengono scelti Prim Everdeen (Willow Shields) e Peeta Mellark (Josh Hutcherson). Per salvare la sorella appena dodicenne, Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence) si offre volontaria per gli Hunger Games al posto di Prim e le viene concesso di partire al fianco di Peeta. Ben presto i due ragazzi conoscono le persone che li aiuteranno nell'allenamento: Haymitch (Woody Harrelson), precedente vincitore degli Hunger Games e loro mentore, benché perennemente ubriaco; Cinna (Lenny Kravitz) il sarto che avrà l'idea di creare delle finte fiamme con cui vestire Katniss (da qui il soprannome la ragazza di fuoco) e Effie (Elizabeth Banks) che insegna loro come rapportarsi con gli sponsor. I tributi, infatti, durante il gioco possono ricevere aiuti dai ricchi abitanti di Capitol tramite piccoli cilindri di metallo paracadutati nell'arena. Durante un'intervista televisiva a Caesar Flickerman (Stanley Tucci), Peeta ammette di essere innamorato di Katniss. La ragazza si arrabbia molto perché crede che la dichiarazione di Peeta sia finalizzata solo ad ingraziarsi gli sponsor e i rapporti tra i due si fanno tesi.
Gli Hunger Games iniziano: Katniss, abituata a cacciare nei boschi e a vivere all'aria aperta, e forte della sua abilità nel tiro con l'arco, riesce ad appropriarsi di un po' di materiale di sopravvivenza e a rifugiarsi su di un albero mentre già dodici dei ventiquattro partecipanti vengono uccisi nelle prime otto ore. Peeta stringe alleanza con il gruppo più forte, formato da alcuni dei tributi dei primi Distretti. Questi ultimi accettano Peeta nel loro gruppo solo perché sperano lui li aiuti ad uccidere Katniss e con il chiaro intento, una volta morta la ragazza, di farlo fuori senza esitazione. Il gruppetto circonda l'albero dove si trova Katniss ma la ragazza con l'aiuto di Rue (Amandla Stenberg), giovanissimo tributo del Distretto 11, riesce a scappare e ad uccidere un'altra concorrente. Rue e Katniss stringono amicizia (anche perché Rue cura Katniss dopo che questa è stata punta da alcune vespe mutanti velenose) e tentano una sortita al campo base per distruggere la scorta di viveri dei sopravvissuti. Katniss riesce nell'impresa ma Rue viene ferita a morte da un tributo del Distretto 1, immediatamente ucciso da Katniss per vendicare l'amica. Prima che Rue muoia, Katniss fa in tempo a cantarle una ninna nanna, la stessa che la ragazza canta abitualmente alla sorella Prim. Questo momento di tenerezza e di pietà insperati accende gli animi degli abitanti del Distretto 11 i quali iniziano una rivolta.
A questo punto Seneca Crane (Wes Bentley), il "controllore" dell'arena, ovvero la persona che da una sala comandi a Capital può gestire qualunque cosa – animata o inanimata, concorrenti esclusi – sia presente nel campo da gioco, fa un annuncio: se alla fine dello scontro rimarranno vivi due membri della stessa squadra, saranno dichiarati vincitori entrambi. Questa scelta non incontra il favore del Presidente Snow (Donald Sutherland) che mette in guardia Seneca dal proseguire su questa strada. Sentito l'annuncio Katniss va in cerca di Peeta e lo trova nascosto e sanguinante per un colpo di spada. La ragazza prova a curarlo ma la ferita è troppo profonda e servirebbe una vera medicina. All'inizio Katniss si mostra tenera con Peeta, sperando che questo invogli gli sponsor ad inviare qualche aiuto, ma il piano non funziona. Allora Seneca offre a Katniss la medicina ma gliela fa trovare in una radura al centro dell'arena, ben sapendo che in quel punto ogni concorrente è estremamente vulnerabile. Nonostante le insistenze di Peeta, Katniss si arrischia a prendere la medicina ma viene bloccata da Clove (Isabelle Fuhrman), tributo del Distretto 1, che prima di ucciderla ammette di aver ucciso Rue. A quel punto interviene l'altro tributo del Distretto 11, lo stesso di Rue, che uccide Clove e, memore del gesto di pietà di Katniss nei confronti della sua amica, la lascia viva.
Katniss riesce a curare Peeta. Qualche giorno dopo Peeta, mentre raccoglie delle bacche avvelenate credendole commestibili, uccide senza volere un altro tributo. A questo punto, per accelerare la fine, Seneca crea dal nulla tre creature mostruose e le scaglia contro i ragazzi che riescono a mettersi in salvo ma finiscono nelle mani di Cato (Alexander Ludwig), l'ultimo tributo – oltre a loro due, ovviamente – ad essere ancora in vita. Dopo un intenso corpo a corpo Katniss e Peeta riescono ad uccidere Cato. Seneca, a questo punto, dichiara nulla la regola precedente sostenendo che deve esserci un solo vincitore degli Hunger Games. Su idea di Katniss, i due ragazzi decidono di avvelenarsi contemporaneamente con le bacche, così che non ci sia alcun vincitore. Seneca, che non può permettere una fine simile, li ferma e li dichiara entrambi vincitori, scatenando così le ire del Presidente. Così mentre Katniss e Peeta vengono portati in trionfo, Seneca viene costretto al suicidio, sempre tramite le bacche, per aver sbagliato nel gestire la situazione.
Nonostante la folla festante che accoglie i due vincitori nel loro rientro a casa, le cose non vanno bene per Katniss: il sentimento che Peeta ha dichiarato di provare per lei, e che lei credeva falso, sembra invece vero. Inoltre l'aver sfidato il sistema e l'aver vinto in coppia gli Hunger Games rendono Katniss e Peeta una minaccia per il potere di Capitol e costringono il Presidente Snow a prendere provvedimenti in merito.

Il film, tratto dall'omonimo best seller di Suzanne Collins, ha avuto un successo di pubblico e di critica planetario. Difficile capire il perché, dal momento che la pellicola ha un numero di difetti molto superiore ai pregi. Cominciamo dalla regia: la prima sequenza e buona parte dei combattimenti sono girati con una telecamera a mano che, immagino, secondo il regista avrebbe dovuto fare guerriglia style. Il risultato, però, è solo quello di confondere lo spettatore provocandogli un vago senso di mal di mare. Inoltre, e qui sta il problema, l'aver usato una camera a mano non aggiunge niente alle stesse scene girate con una macchina da presa fissa. Anzi, i combattimenti con la macchina fissa si sarebbero goduti molto di più. Per il resto del film la regia non sembra così strabiliante e innovativa. È vero, durante il gioco le inquadrature si concentrano sempre di più sui singoli protagonisti, ma essendo quello un enorme reality show, direi che è normale. Sarebbe stato innovativo se in un film di "vita vera", con un taglio simile di ripresa, il regista ci avesse voluto comunicare che metaforicamente la nostra vita è null'altro che un reality show. Ma in questo caso qui, dov'è lo sforzo? Dov'è l'innovazione?
Posto, quindi, che la regia non è il punto di forza del film, vediamo i personaggi. Praticamente tutti i personaggi, a parte forse Effie Trinket, sono macchiette caratterizzate malissimo. Il personaggio di Katniss, la protagonista, è incoerente nelle varie parti (da cose minori, come il fatto che non rivolge parola a Peeta sul treno ma si arrabbia quando è lui a comportarsi allo stesso modo più tardi, a cose più grandi, come cercare di vincere il gioco senza voler uccidere nessuno e senza avere una strategia) ed è sfruttato male (si dice sia infallibile con l'arco ma di frecce in tutto il film ne tirerà al più sei – e tre di esse solo durante l'allenamento). Come se non bastasse, Katniss ha per tutto il tempo l'aria di una che non sta capendo un accidente di cosa sta succedendo attorno a lei. Ciò è poco originale (l'abbiamo già visto in Sucker Punch), non è credibile (è assurdo che la vincitrice dei giochi si guardi attorno spaesata dal primo all'ultimo secondo del film) e sicuramente non è sexy. Discorso analogo per Peeta che ha la capacità di lanciare grossi pesi (cosa mostrata durante l'allenamento, ma mai più citata nel gioco) e che esce vivo dagli Hunger Games solo perché è dello stesso Distretto di Katniss (all'inizio le è contro, poi passa metà gioco mimetizzato tra le rocce, ferito in una grotta e alla fine si fa catturare da Cato). Haymitch, il mentore, si presenta subito come il classico ubriacone egoista, perpetrando così un odioso stereotipo dei film di genere, salvo cambiare completamente personalità poche scene dopo. Questo cambiamento, però, non va letto come distacco dal suddetto stereotipo, ma banalmente come incapacità di tratteggiare un personaggio che sia coerente ed interessante. Cose simili si potrebbero dire di Prim, la sorella di Katniss, o di Seneca Crane, il “conduttore” del gioco, ma credo di aver reso l'idea.
Quindi il punto di forza non sono neanche i personaggi; rimane la trama. Spiace dirlo ma, a parte riferimenti più o meno cercati (leggi: plagi più o meno evidenti) con altri film come Battle Royal o Contenders serie 7, la trama ha talmente tanti buchi e tante scene insensate che difficilmente può essere anche vagamente interessante. Si va da cose minori, quali capire com'è fatta l'arena di gioco (le piante curano e le bacche sono velenose, ma possono essere creati alberi e animali reali dal nulla?) o il fatto che il cannone spari e sul cielo venga proiettata l'immagine di chi è morto solo quando questo giova alla trama e non sempre, a cose imbarazzanti come il fatto che la sequenza dei cani si svolga di notte perché il CGI rende meglio col buio o la scena dell'albero. Ecco, la scena dell'albero: se permettete la analizzo un attimo. Noi troviamo Katniss, ferita ad una gamba e armata solo di un coltello (a dire il vero sembra si sia costruita anche delle rudimentali frecce con dei pezzi di legno, ma senza arco risultano alquanto inutili), inseguita da quattro feroci assassini (senza contare Peeta che, tecnicamente, in quel momento del gioco potrebbe non aver interesse ad uccidere la sua compagna di squadra) armati con almeno una spada e un arco, oltre ad altre armi di lusso reperite accanto alla cornucopia di inizio gioco. Bene, la nostra protagonista si arrampica su un albero a, diciamo, 5 metri d'altezza e nessuno dei quattro avversari riesce a raggiungerla e a colpirla. Poi Katniss fa mezzo giro attorno all'albero e si sistema. I quattro spietati non ci pensano nemmeno a fare mezzo giro dell'albero ma decidono di aspettare che Katniss scenda. Durante l'appostamento i furbastri non organizzano neppure un turno di guardia, tanto che l'alba li trova tutti addormentati. Katniss, allora, decide di segare un tronco (operazione questa che notoriamente produce una discreta confusione) per far cadere un alveare di vespe killer sul gruppo di assassini. Questo è il tipico esempio di come non deve essere girato un film. La sequenza ha vette di assurdità che non conoscono paragoni. Fuori di metafora, sembra davvero che tutti i personaggi del film compiano una serie di azioni mirate unicamente ad arrivare al finale, senza che queste siano giustificate o appaiano credibili. È questo che, secondo me, è intollerabile in un film del genere e lo rendono un prodotto quantomeno dozzinale.
Per finire, quasi tutti i media hanno ripreso il punto nodale del "reality show estremo" sostenendo che questo stigmatizza la contemporaneità. Anche questo non è vero perché qui il reality show è effetto del gioco e non causa. Prendiamo un film come Live!, ad esempio. In quel caso il reality show era il punto di partenza e, per aumentare gli ascolti, lo si estremizza facendo morire i concorrenti. Ecco, dunque, la critica della società attuale; proprio domani in qualche nazione del Mondo qualche rete televisiva cinica e senza scrupoli potrebbe benissimo mandare in onda un reality show di questo genere. Questi siamo noi, questa è la nostra società. In Hunger Games, invece, il punto di partenza è il sacrificio dei giovani come monito ai Distretti che si sono ribellati. Poi, solo successivamente, per spettacolarizzare la cosa (ma anche per dare la speranza alla gente – come qualcuno fa notare nel film – e per un senso di ipocrita magnanimità – “noi uccidiamo i ragazzi ma siamo buoni e uno lo lasciamo vivere” - e, probabilmente anche per far sì che ogni Distretto viva in diretta la morte dei loro ragazzi), viene istituito il reality show. Questi non siamo noi: questa cosa non può succederci, se non prima della fondazione di una mega nazione divisa in Distretti, dopo la ribellione fallita di alcuni di essi e la decisione dei governanti di istituire un tributo. Ecco, quindi, che la critica al mondo attuale ne risulta estremamente affievolita e non può essere considerata la forza del film.
Per tutti questi motivi Hunger Games è un film decisamente mal riuscito e il suo successo planetario davvero non ha spiegazioni.


[Ringrazio Enrico per la chiacchierata che ha portato ad un commento così ampio]