venerdì 17 maggio 2013

Miele (2013)


Miele
Italia/Francia, 2013, colore, 96' (1h 36')
Regia di Valeria Golino

Visto ieri al Fellini di Trieste.

Irene (Jasmine Trinca) è una ragazza apparentemente normale che studia a Padova (dove divide l'appartamento con una ragazza cinese), che ha un fidanzato, Stefano (Vinicio Marchioni), e un padre (Massimiliano Iacolucci) rimasto vedovo da cui ogni tanto ritorna per passare un po' di tempo, fargli compagnia e giocare a backgammon. In realtà l'università è una copertura (e le compagne di stanza cinesi sono turiste fotografate, con un piccolo trucco, per la strada) perché Irene lavora per Rocco (Libero De Rienzo) e, col nome d'arte di Miele, aiuta i malati terminali a morire. Per farlo, Irene usa dei particolari barbiturici, pensati per sopprimere i cani, acquistati ad intervalli regolari in Messico, dove la ragazza finge di andare per turismo. Un giorno Rocco passa a Irene l'indirizzo dell'ingegner Grimaldi (Carlo Cecchi), un settantenne che ha perso ogni interesse per la vita e vuole morire, ma "in modo dignitoso". Irene all'inizio lascia i barbiturici all'ing. Grimaldi ma appena capisce le vere intenzioni dell'uomo cerca di toglierglieli, però senza successo. Irene inizia così a frequentare l'ing. Grimaldi, prima per tentare di recuperare il veleno e poi perché con l'uomo, tutto sommato, si trova bene. Grazie all'interesse della ragazza, anche Grimaldi inizia a riappassionarsi alla vita finché un giorno, spontaneamente, l'uomo restituisce a Irene i barbiturici. Appena Irene se ne accorge, corre a casa di Grimaldi ma scopre che si è ucciso gettandosi dal balcone.

Miele, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2013, è un film che parla di eutanasia e lo fa – primo pregio del film – senza stereotipi e senza ridurre tutto a macchiette, come spesso il cinema italiano ci ha abituato. Il secondo, e purtroppo ultimo, pregio del film è che le tre scene di suicidio assistito sono belle: poetiche, intense ma non pesanti, toccanti, ben recitate, dirette con estremi gusto e sapienza. Qual è il problema, allora? Che il resto del film non è minimamente al livello.
Quando viene raccontata la "vita privata" di Irene, tutto si fa caotico e confuso. Si passa da un didascalismo estremo (tutte le volte in cui la ragazza fa sesso, ad esempio, ma anche i numerosi viaggi in treno/autobus/metropolitana) a dei momenti di astrazione pura (ad esempio gli insulsi flashback con la madre – una Valeria Bilello sprecatissima in quel ruolo – buttati là senza alcun motivo e senza spiegazioni). Viene introdotta un'apparente malattia cardiaca di Irene – che non sembra essere psicosomatica, benché il cardiologo non trovi nulla che non vada nel cuore della ragazza – salvo poi abbandonarla a metà film senza motivo e senza che questa abbia avuto alcun ruolo nel dipanarsi della trama. Inoltre viene tentato un lavoro di introspezione nel carattere di Irene nel modo peggiore possibile: mostrandola pensierosa in un campo di grano o in riva al mare o su un vagone della metropolitana. Spiace dirlo, ma non è con queste inquadrature fintamente artistiche che si scava nell'intima profondità di un personaggio. Servono dialoghi seri e serve una regia esperta, tutte cose che Valeria Golino, al suo esordio dietro la macchina da presa, evidentemente non ha.
Se Jasmine Trinca tutto sommato se la cava discretamente in questo ruolo non facile – anche se nelle scene in cui si arrabbia perde improvvisamente e completamente di credibilità – è difficile valutare la performance di Carlo Cecchi. Onestamente non capisco se ha interpretato magistralmente un personaggio scritto male o se ha interpretato malissimo un personaggio multiforme e sfaccettato. Gli altri personaggi comprimari spesso non sono minimamente all'altezza, come ad esempio Vinicio Marchioni, semplicemente imbarazzante nella scena dell'auto, o Libero De Rienzo che tratteggia un personaggio estremamente scialbo, limitando la sua interpretazione al mero compitino d'accademia.
Un cenno alle musiche o, meglio, al loro uso. Uno degli aspetti più interessanti è che noi abbiamo due tipi di ascolto della musica: dagli stereo (durante i suicidi assistiti, in casa dell'ingegnere, in discoteca) o come la sente Irene, dalle cuffiette del suo iPod, e quindi più forte quando le ha addosso e più debole quando se le toglie. Purtroppo questo "vivere la musica" come la vive Irene avviene solo quando la regista lo ritiene importante per la storia (o quando se ne ricorda) e non, come sarebbe stato bello, sempre, vanificandone la forza. Una parola anche sul sonoro: uno dei grossi problemi del cinema italiano degli ultimi anni è l'uso inveterato delle mezze voci e dei sussurrati. Qui Valeria Golino è bravissima a sfruttarli magistralmente nei momenti di intimità con le famiglie che richiedono i servigi di Irene, salvo poi dimostrarsi incapace di gestire eventi naturali come la pioggia (il dialogo tra Irene e Rocco è inascoltabile a causa del disturbante scrosciare dell'acqua) o non rendersi conto che la scena in cui Stefano sorprende Irene mentre questa sta preparando il caffè sarebbe stata da rigirare interamente da quanto biascicano gli attori.
Concludo con la parte più delicata. Uno dei più grossi difetti del film è che non osa. Come detto all'inizio, il tema dell'eutanasia viene trattato in modo onesto e corretto. Che bisogno c'era, allora, di far dire a Irene la battuta: «Nessuna delle persone che ho aiutato voleva veramente morire»? Trovo che questa sia un'ingerenza inaccettabile, come a mettere le mani avanti in merito a future polemiche dei mass media ("Non ho parlato bene dell'eutanasia, infatti la protagonista alla fine la condanna"). Questo punto rovina irrimediabilmente un film che è ben lontano dall'essere un buon film ma che comunque presenta alcuni pregi non comuni. Inoltre il finale buonista, con il foglio di carta che si solleva, è il colpo di grazia. Il finale amaro (in cui il foglio non si muove) sarebbe stato il terzo pregio del film ma, di nuovo, non si è osato e si è persa l'occasione di fare per una volta qualcosa di diverso.