venerdì 31 agosto 2012

Io sono Tony Scott (2010)


Io sono Tony Scott, ovvero come l'Italia fece fuori il più grande clarinettista del jazz
Italia, 2010, colore & b/n, 128' (2h 8')
Regia di Franco Maresco

Visto su Rai 3 all'interno di Fuori orario.

Il documentario racconta la vita e il declino di Tony Scott, nome d'arte di Anthony Joseph Sciacca, clarinettista jazz italo-americano che ebbe uno straordinario successo nell'America degli Anni '50. Nato da due genitori originari di Salemi, in provincia di Trapani, Tony si è presto appassionato al clarinetto e, negli Anni '50 riesce a suonare con artisti del calibro di Charlie Parker, Billie Holiday, Buddy De Franco (cui strapperà per alcuni anni il titolo di "Miglior clarinettista"), Harry Belafonte (per il quale Tony sostiene di aver scritto Banana Boat Song), Bill Evans (convincendolo a lasciare la musica classica per darsi al jazz) e, seppur bianco, riesce a farsi ben volere dalla comunità nera che a quei tempi aveva il "monopolio" della cultura jazz. Negli Anni '60 Tony decide di fare un lunghissimo tour in tutta l'Asia per studiare la cultura di quei paesi e il loro modo di fare musica e per tentare una fusione tra jazz e musica popolare orientale. Al ritorno negli Stati Uniti, alla fine degli Anni '60, Tony non si ritrova più nei nuovi valori e nella nuova società americana e decide di trasferirsi in Italia. Qui risiede tra Roma e Milano fino al 2007, anno in cui muore in seguito all'aggravarsi di un tumore alla prostata, barcamenandosi tra serate nelle balere e concerti nelle feste di piazza, pur di racimolare qualche lira. Il suo carattere ribelle, la sua scontrosità e qualche lieve disturbo psichico (forse dovuto alle torture inflittegli durante una detenzione in Indonesia per spionaggio) hanno fatto sì che negli ultimi anni della sua vita Tony fosse praticamente dimenticato se non, appunto, per spettacoli di infimo ordine.
Tutto il documentario alterna interviste a Tony Scott, alle tre mogli e alle due figlie, a jazzisti e ad esperti nel campo, sia italiani che stranieri, con vecchi filmati di repertorio e vecchie fotografie.

Il documentario mostra i suoi limiti fin da subito. In realtà i limiti li crea tutti Maresco che tenta di dimostrare la sua tesi ("La colpa della morte di Tony Scott è da imputare interamente all'Italia") con una serie di artifici retorici sfacciati e stucchevoli. Il film si apre con un'intervista televisiva del 2005 di Paolo Bonolis che, per lo meno nello spezzone che Maresco ci mostra, fa una battuta a Tony Scott non felicissima ma neppure così tremenda. Eppure questo basta a Maresco per sostenere che Bonolis ha umiliato il più grande jazzista del Mondo e partire con la sua filippica retorica contro l'Italia. Filippica che ha il suo culmine di cattivo gusto quando Maresco tira fuori un antiberlusconismo totalmente fuori luogo che sottintende che è colpa di Berlusconi se Tony Scott ha fatto quella fine. Probabilmente il passo successivo sarebbe stato dimostrare che anche le torture in Indonesia o il tumore alla prostata sono imputabili all'"italietta" berlusconiana; per fortuna il regista si è fermato prima.
Ad ogni modo, il documentario dà per assodato che Tony Scott fosse uno dei jazzisti migliori del mondo, senza tentare di dimostrarlo o di spiegare il perché (nelle esibizioni più recenti non mi sembrava così eccezionale. Anzi, tutt'altro). Inoltre tutto quello che dice Scott viene preso per vero, senza un controllo, un approfondimento o una verifica, anche qui nonostante nelle interviste più di qualcuno affermi che era uno che voleva attirare su di sé l'attenzione (e quindi non è detto che non abbia "gonfiato" qualche aneddoto a suo favore).
Guardando il documentario ci si pone diversi interrogativi: perché Billie Holiday o Bill Evans (che ha iniziato grazie a Scott) oggi sono ricordati mentre Tony Scott è scivolato nell'oblio? Davvero solo perché si è trasferito in Italia negli anni '70? E se è vero che gli spettatori statunitensi sono andati in visibilio per la reunion del 2003 con Buddy De Franco, perché dagli anni '70 ad oggi non hanno fatto niente per ricordare questa "stella del jazz"? Tutte domande legittime che però il documentario non segue, impegnato com'è ad addossare tutte le colpe agli italiani ingrati.
Infine trovo fastidioso che di tutti i filmati che compongono il documentario non ci sia un riferimento temporale né in sovrimpressione né nei titoli di coda. Sarebbe stato utile capire da dove è stata tratta ogni esibizione e, soprattutto, di che anno si trattava, per cercare di mantenere un filo logico mentale, poter rendersi conto dei cambiamenti della tecnica nei vari periodi ed eventualmente per avere una traccia per recuperarli. Sarebbe stato interessante sapere chi era raffigurato in quelle foto, specialmente per chi non bazzica molto il jazz. Sarebbe stato fondamentale sapere da che film sono tratti gli spezzoni dei film. E invece niente.
Onestamente io sono convinto che questo sia uno dei modi peggiori per realizzare documentari (specialmente considerato che, stando alle voci, ci sono voluti quasi quattro anni per completarlo): non si fa un buon servizio né al genere, né al soggetto del film.